1962
La giornata nera di Jašin
Arica è detta ‘la città dell'eterna primavera’ e lui, quanto a primavere, viaggiava verso le trentatrè. All'estremo nord del Chile, ai confini col Perù e affacciata sul Pacifico, Arica è la città più arida del mondo. Non piove mai, o quasi mai. Anche il pomeriggio del 3 giugno 1962 parve a tutti soleggiato e umido. A lui no. Per lui, anzi, quel pomeriggio addirittura grandinò. Una cosa del genere non gli era mai capitata, né più gli capiterà. Solo due anni prima gli era successo di farsi superare tre volte. Dagli austriaci, ma erano tre palloni che non contavano nulla. Quel pomeriggio ad Arica furono quattro, e almeno due rotolarono davvero inattesi e beffardi in fondo alla rete. Anche quelli, a dire il vero, contavano poco o nulla. Certo, il match fu assai bizzarro. Se dopo dieci minuti stai vincendo tre a zero, è inevitabile che cominci a pensare ad altro, magari alla prossima partita. Se dopo un’ora sei sul quattro a uno, stai già pregustando la doccia. Ma è davvero difficile dire cosa abbia distratto Lev Ivanovič Jašin, a quel punto. In pochi minuti, gli sconosciuti e disorganizzati pedatori colombiani furono capaci di portarsi sul quattro pari. Poi lo squadrone sovietico si qualificò e loro furono eliminati. Ma poco importa. Nell’infinita storia del futebol si erano comunque ritagliati un minimo, significativo spazio: avevano praticamente ridicolizzato la leggendaria «araña negra». E Lev Ivanovič poteva stringer loro la mano al novantesimo, con un sorriso più stordito che lieve seguito da una scrollata delle larghe spalle.
Ove si narra di come la Seleçao certificò la propria esistenza in vita
Qualcuno, inutile nasconderlo, si illude. Pelé è in condizioni di forma scadenti, dice, la difesa fa acqua, non si capisce come giocano perché non hanno un centravanti, hanno cambiato allenatore (più che altro, hanno cacciato Saldanha). Il Brasile è in crisi, sentenziano i saputelli. E a battezzarne l'esordio, lassù al Jalisco di Guadalajara, non sarà certo una nazionale-materasso. Tutt'altro. Si tratta anzi della replica di una finale mondiale, dunque una classica, e come potrebbe essere altrimenti definita Brasile-Cecoslovacchia?. E infatti la partita comincia male. Sotto dopo meno di un quarto d'ora, i carioca iniziano a mostrare ciò di cui sono capaci. Il mondo, strabiliato, prende nota. Non ci sarà un centravanti, ma la linea d'attacco è composta di soli fenomeni. Compreso quel giovane (figurina) di cui si sa pochissimo: tale Rivelino, sì. E' lui a raddrizzare i conti. Pelé lì mette in attivo, e Jairzinho esagera. Lassù, al Jalisco di Guadalajara, qualcuno sorride, qualcuno si allarma e qualcuno inizia a scrivere il romanzo di México '70.
La scoperta di Carlos Manuel
Le partite si giocano con un pallone, durano novanta minuti (o giù di lì) ma stavolta ha vinto il Portogallo. Esatto: pensiero apocrifo di Gary Lineker. Accade perché i lusitani a un certo punto si accorgono che esiste un prato anche oltre la linea mediana del campo, e che non c'è alcun divieto di transito. Manca un quarto d'ora (o giù di lì) al novantesimo, e loro organizzano una spedizione. Gli inglesi avevano premuto con fastidiosa insistenza; diverse occasioni, ma la porta difesa da Manuel Galrinho Bento era ancora intonsa. Alla prima azione d'attacco degna di questo nome, nella prima vera occasione in cui il Portogallo si inoltra nella terra fin lì abbandonata dagli uomini, senza mappa e con l'intenzione di tornare subito indietro se la situazione fosse parsa troppo pericolosa, ecco - dicevo - che il Portogallo trova il tesoro, nascosto alle spalle di Peter Shilton. L'intuizione è di Carlos Manuel Correia dos Santos (foto), centrocampista e leader del Benfica, dotato di un certo fiuto per questo tipo di scoperte. Lineker, esausto dall'inutile prodigarsi e irritato dagli sprechi, comincia a essere sicuro che qualcosa di strano vi sia nel football, soprattutto quando gioca l'Inghilterra.
Cineteca- Vedi anche le partite del 3 giugno in Cineteca