Visualizzazione post con etichetta 1978. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta 1978. Mostra tutti i post

25 gennaio

L'XI paulista ai tempi della fondazione
1930
Sventola il Tricolor Paulista

L'atto ufficiale, sottoscritto dai fondatori il 26, venne retrodatato al 25 allo scopo di creare una totale identificazione con la città, la cui storia inizia il 25 gennaio 1554 con l'insediamento di una missione gesuita. Nasce così il São Paulo Futebol Clube, destinato a farsi strada nella storia del calcio del Brasile e del Sudamerica. Non mancò mai di prestare almeno un giocatore alla Seleçao nelle cinque edizioni della Coppa del mondo vinte dal Brasile. Fra tutti, basterà ricordare Dino Sani, Gérson e Cafu. Grande fucina do Brasil.
Sito ufficiale | Palmarès


1931
Le tre martellate di Meazza

L'immagine è di Monsù Poss, il martello invece è di Peppino e ha inchiodato con un rumoroso cinque a zero la nazionale di Francia, venuta a Bologna con qualche velleità di scamparla. Troppa la differenza di classe e di ritmo tra i due XI. Così, alla sesta partita in azzurro, Meazza è già alla seconda tripletta (l'ha servita per intero nel primo tempo). Intanto, esordisce un argentino, Renato Cesarini (nella foto), eponimo del gol decisivo segnato allo scadere della partita. Quella volta, a Bologna, non ce ne fu bisogno.


1959
José il domatore

Ultima di andata. A San Siro è in cartellone Milan-Bologna, e i rossoneri avranno dedicato il pre-partita a rituali apotropaici. Di solito buscano. Infatti il match è balzano, il Bologna spesso conduce, il Milan si accanisce sui legni, ma alla fine riesce ad avere la meglio. In tabellino si trova due volte il nome di José 'Mazzola' Altafini, alla prima stagione italiana. Imperversa, è un autentico crack. Tocca a lui domare la bestia nera felsinea e, con questi due sudatissimi punti, il Milan è campione d'inverno.



1978
L'inutile cupidigia italiana


Tardelli si aggiunge all'infinita lista di chi ha gonfiato le reti altrui con la maglia azzurra, ma l'Italia 'sperimentale' è messa sotto dalla Spagna nel test-match giocato in un Bernabéu mezzo vuoto. All'orizzonte, ma ancora lontano, c'è il mondiale di Argentina. La critica è scettica, le alternative ai titolari non sembrano all'altezza (ma si tratta di Claudio Sala, Paolino Pulici, Lionello Manfredonia: altri tempi). Secondo Giovanni Arpino (La Stampa, 26 gennaio 1978) è bene non coltivare "inutili cupidige". Bearzot stava iniziando a modellare il suo capolavoro, anche se i primi abbozzi non parevano di qualità eccelsa.



1995
The Crystal Palace Kick

"After being man-marked efficiently by Crystal Palace’s Richard Shaw, the iconic Frenchman kicked out at the defender and was duly sent off. As he left the pitch he suddenly launched himself at Palace fan Matthew Simmons with a startling kung-fu kick. With Eric Cantona there was always a thin line between genius and madman. It is the most grotesque thing I have ever seen from a player on the pitch". Così ricorda l'episodio Jonathan Pearce, brillante commentatore BBC. Pagina nera.


1997
Goal of the Season

Nel football contemporaneo tutto deve fare spettacolo: di qui il moltiplicarsi degli awards; a ogni latitudine lo spettacolo genera spettacolo. Trevor Sinclair (foto) è stato protagonista di una dignitosa carriera. Ha vinto poco; ha raccolto poco più di una decina di caps; non è mai stato ingaggiato dagli squadroni dell'Inghilterra o del continente. A parte i followers del Blackpool e del QPR, lo si ricorderà soprattutto per un gol (premiato come il migliore dell'anno nel 1997) segnato in formidabile rovesciata a Loftus Road, nel quarto turno di FA Cup che opponeva al QPR il Barnsley.


3 gennaio

1978
Il fortunato delantero di riserva della Celeste

Certo che è famosa, questa foto. Ritoccata, sì. Pure colorata. Non è granché. Però, signore e signori, vorrei che qualcuno mettesse a fuoco l'ultimo giocatore della Celeste, l'ultimo a destra tra quelli accucciati. Lo riconoscete? Ovviamente no. Di quell'XI è certamente il meno famoso. Del resto, giocò poche partite nell'Uruguay (quattro, complessivamente), e militò in club secondari di Montevideo (Atlético Cerro, Defensor Sporting). In carriera, non vinse nulla. O quasi. E' perciò difficilissimo reperire notizie su di lui. Certo, fu fortunato. Per l'infortunio di un compagno (Ernesto Vidal) esordì nella Selección il 16 luglio 1950. Capito l'antifona? Esordì al Maracanã, e fu tra coloro che vinsero la coppa del mondo contro il Brasile, in casa del Brasile. Tutto qui. Rubén Morán si spense, a Montevideo, il 3 gennaio 1978.
Profilo


1988
 Simba

Incerto fu l'avvio di stagione, per il primo Milan di Sacchi; con l'anno nuovo, tuttavia, acquisiti ritmi e meccanismi di gioco, si fece "truculento" e iniziò a demolire - uno per uno - tutti i suoi grandi vecchi e nuovi avversari. A cominciare proprio dal Napoli di Careca e del Diego, campione d'Italia e travolto dalla furia di Ruud Gullit. L'olandese, appena insignito del pallone d'oro, estasiò persino il Gioannbrera. "Ora sappiamo tutti che è una forza della natura, non solo, ma anche uno capace di mirabile puntiglio. Goffi i napoletani che avevano irriso al suo titolo di Mister Europa. Gullit li ha smentiti senza ringhiare, con folgorante impegno. Ha servito due palle-gol da ala destra; ha incornato sul palo; ha uccellato Garella due volte (una a favore di Donadoni: ma non era attivo il suo fuori-gioco?), ha sparato da trenta metri un destro omicida su calcio franco. Ha galvanizzato i compagni fino a inciuccarli di corsa e di entusiasmo". Nonostante i timori del magister, quell'XI non vivrà di soli "estri dinamici" e di "eretismo podistico"; un gioco cui forse pagò dazio pesante proprio Simba Gullit, il cui livello di rendimento scese costantemente dopo quel suo primo inverno italiano.

4 dicembre

1978
Il sosia

Quanto ci tengono i Reds alla Supercoppa? Forse meno dei belgi. Forse, poiché in Europa sono nel pieno del loro ciclo, li sottovalutano. Ma nell'Anderlecht ci sono pedatori coi fiocchi. Indigeni, come Van der Elst, Vercauteren, Ludo Coeck; olandesoni come Haan e come i temibilissimi Ruud Geels (autentico sfondareti) e il mancino tanto bizzoso quanto talentuoso, quello che sembra un sosia di Johann Cruijff, e che forse proprio perciò, pur essendo nato ad Amsterdam tre soli mesi dopo di lui, nell'Ajax non mise mai piede. Se hai intenzione di fare cattiva figura, questi non si lasciano pregare, e potrebbe andarti peggio di quel che prevedi. Il mancino, a tre minuti dalla fine, insacca il terzo gol per i suoi, quello che virtualmente assegna la coppa. Un morbido ricamo, di classe purissima.
Cineteca

1982
Battesimo azzurro per il Piscinin

Ti ricordi Franco? Potevi fregiarti del titolo di campione del mondo, anche se in Spagna il campo l'avevi visto solo dalle tribune. Ironia della sorte, perché dodici anni dopo, invece, giocherai da capitano una partita memorabile, una finale di Coppa del mondo che concluderai in lacrime, tra le braccia di Arrigo Sacchi, dopo aver sbagliato uno dei calci di rigore decisivi. Ma in quell'inverno del 1982, quando finalmente ti toccò il debutto in maglia azzurra a Firenze, eri la stella assoluta della Serie B italica, dove il Milan era precipitato per demeriti sportivi ma anche per la tua lunga assenza, dovuta a una malattia del sangue che sembrava potesse costarti la vita. L'esordio non fu entusiasmante (scialbo zero a zero con la Romania), quasi a prefigurare per te un futuro senza vittorie con quella maglia. Mah sì, Franco, non ci pensare più. Tutti sanno che, per tanti e tanti anni, nessuno al mondo è stato più bravo di te.
Tabellino | Highlights


29 novembre

1978
Vivian Anderson

Non sono passati tanti anni. Si giocava una partita di Seconda divisione al Brunton Park di Carlisle, e Brian Clough aveva iniziato la sua favolosa avventura sulla panca del Nottingham Forest. Clough chiede al giovane Vivian Alexander Anderson di scaldarsi; dopo un po' lo vede tornare, turbato. Beh? Che succede? "Mi tirano banane, mele e pere", dice il ragazzo. Fregatene, risponde il coach. Già. E' un ragazzo di colore. A ripensarci, ovviamente, viene da ridere - ma neanche poi troppo. Oggi intanto siamo a Wembley, nel frattempo il Forest ha fatto parecchia strada, è campione d'Inghilterra e in Coppa dei campioni ha eliminato, al primo turno, i detentori. I detentori? Sì, il Liverpool, mica storie. Oggi, a Wembley, c'è un'amichevole di lusso, Inghilterra-Cecoslovacchia, i Tre Leoni contro i detentori del titolo di campioni d'Europa. E lui, Viv Anderson, gioca. Titolare. Non era mai accaduto, prima di allora, che quella maglia fosse indossata da un figlio nero del Merry Kingdom.
Tabellino | Highlights

8 novembre

1978
La figuraccia di Bratislava

Gli azzurri, reduci da un mondiale che poteva finire meglio, non dovranno disputare partite ufficiali per un paio d'anni, perché la fase conclusiva dell'europeo (per la prima volta con otto squadre e due gironi) si giocherà proprio nel Belpaese. E quindi vanno a Bratislava per saggiare la consistenza della Cecoslovacchia, che si fregia ancora del sorprendente titolo di campione continentale conseguito ai danni dei tudésc nel '76, ma che in Argentina non c'era, lasciando che i biglietti aerei se li accaparrasse la Scozia. "Gli azzurri non possono tradirmi", dichiara il Vécio (foto, durante la partita). Schiera la formazione tipo, compreso il malridotto Pablito. Poiché conta solo il prestigio e non ci sono punti in palio, i nostri eroi hanno da pensare al campionato, si lasciano strapazzare dagli avversari e dal freddo, e così intirizziti e stizziti, travolti e stravolti dal ritmo dei cechi escono dallo stadio dello Slovan tra le risate di scherno del pubblico e con tre pesanti e indigesti palloni stampati sul tabellino. Si torna coi piedi per terra, ed è un bene.

4 ottobre

1978
Eterne rivali

Si sono appiccicate, e non si staccano più. Ma una delle due è sempre di troppo. Ci siano posti da distribuire per un campionato d'Europa o per una coppa del mondo, quando si compongono i gironi Jugoslavia e Spagna pretendono di stare insieme - oddio, non è che lo pretendano, semplicemente e per caso succede così. Ormai sanno che una delle due, alla fine, resterà a guardare: fa parte del gioco. A volte capita che rimangano a casa tutte e due, come nel 1970: dal loro girone uscì in testa il Belgio, rien ne va plus. Poi, per il mondiale del 1974, arrivarono appaiate alla fine del piccolo campionato, e così volarono ("mah sì, andiamoci insieme!") in Germania entrambe ma solo per contendersi la qualificazione in una partita di spareggio, ed ebbero la meglio gli slavi. La Spagna si prese la rivincita quattro anni dopo, superandoli nel torneo che metteva in palio una gita in Argentina. E ora - visto che la Spagna organizzerà i mondiali dell'82, nella cui fase preliminare (ovviamente) le due nazionali saranno inserite nel medesimo gruppo - c'è da stabilire quali saranno le otto elette per l'europeo d'Italia (1980). Eccole qui, nello stesso girone, Spagna e Jugoslavia, Jugoslavia e Spagna. E' la prima partita, si gioca a Zagabria. Oltrettutto, ad allenare i padroni di casa è il grande Ladislav Kubala (foto), che (appunto) ha appena smesso di stare sulla panca della Spagna. Ma che noia, certo. Beh, se si vuole, si vada a vedere com'è andata stavolta. A noi non interessa.
Cineteca

23 settembre

1956
I magiari consacrano lo stadio di Lenin

Il corrispondente dell'Unità da Mosca è laconico. "Mosca, 22.  Grandi accoglienze sono state riservate ai calciatori magiari che domani si misureranno con la nazionale calcistica dell'URSS per un incontro che vale per la supremazia europea. Le due squadre sono reduci da significativi successi. I sovietici hanno battuto i tedeschi campioni del mondo mentre i magiari hanno espugnato il campo degli jugoslavi". Seguono le probabili formazioni. Ma: un momento! Supremazia europea? Bisogna metter conto che i rossi hanno giocato quattordici incontri internazionali nella loro storia, e che un anno fa hanno persino pareggiato in casa coi francesi. E' vero che con l'Aranycsapat hanno finora, ufficialmente, strappato due grandi pareggi: ma quelli non facevano sul serio, si sa. Un confronto è storicamente improponibile. Oggi dunque si gioca nello stadio intitolato a Lenin, anzi, lo si inaugura (foto, ma di repertorio), ci saranno almeno centomila spettatori, e probabilmente vincerà l'Ungheria. Anzi, sicuramente. Per vendicarsi, tra qualche mese, Chruščëv manderà i carri armati a Budapest.
Cineteca



1978
Il brontolone di Crocefieschi

Per l'undici di Bearzot è in cartellone una sgambata a Firenze contro i turchi, dopo l'estate del mondiale. Certo, è una buona occasione per prendere le misure a qualche pedatore di seconda fascia - di quelli che la critica vorrebbe sempre titolari. Così, nel secondo tempo, il Vécio dà un'opportunità a Walter Novellino e a Roberto Pruzzo. Beh, il povero Walter ha davanti due totem (Causio e Claudio Sala); Pruzzo invece è un bomber assai promettente, appena passato dal Genoa alla Roma. Per Novellino e la nazionale amarsi e lasciarsi è stato un tutt'uno; Pruzzo avrà altre occasioni, ma non riuscirà mai ad esplodere. Il suo orizzonte è e resterà quello del campionato; è e resterà un ottimo centravanti, tra i migliori della Serie A. "Per risaltare meglio nel ruolo, avrei bisogno d'un Rivera. E di Rivera non ne esistono più. Io nel Genoa ho giocato alcune partite con l'ultimo Corso e mi sentivo già in paradiso. Peccato che non ho potuto mai giocare con Rivera. Ecco: nella Roma, se fosse possibile un altro straniero, ci vedrei bene esclusivamente Maradona», disse nel 1981. E come no.
Storie di calcio (1981) | La partita: tabellino - highlights

13 settembre

1964
Don Alfredo Di Stéfano esordisce (nell'Español)

"Quand'ero ancora bambino, il Real Madrid mandò via Alfredo Di Stéfano dopo una sconfitta nella finale della Coppa Europa contro l'Inter di Milano. Di Stéfano era così emblematico che inizialmente risultava inconcepibile la nostra squadra senza di lui, soprattutto se, come avvenne, non si ritirava ma continuava la sua attività: firmò con l'Español di Barcelona, dove militò per alcuni anni, e poi credo che passò all'Elche – un'assurdità, quella striscia verde. Ebbene, fu tale la mia indignazione e quella dei miei compagni merengues che decidemmo di passare al club barcelonese, o piuttosto di essere di Di Stéfano e non tanto del Madrid. Per alcune giornate seguimmo i risultati della sua nova squadra con attenzione, vedemmo che don Alfredo segnava doppiette di goal e la rabbia ci invadeva ancora di più. Fino a quando arrivò il confronto Madrid-Español, e allora le nostre scelte crollarono. Pure arrabbiati come eravamo con il Madrid, quel giorno non riuscimmo ad andare contro la nostra squadra né a favore dell'idolo ingiustamente espulso" (Javier Marías, Selvaggi e sentimentali, pp. 78-79).
Vi è solo parziale riscontro all'ultima parte dei ricordi di Javier Marías. Infatti, il caso vuole che Di Stéfano giocasse con l'Español e contro il Real proprio nella prima giornata del Campeonato de Liga 1964-65, al Sarriá (13 settembre 1964). I Blancos vinsero due a uno, in rimonta, con doppietta di Puskás. Nella gara di ritorno (3 gennaio 1965), al Bernabéu, Di Stéfano non scese in campo.
Tabellino | Highlights



1978
Serata da favola al City Ground

Prima del ranking UEFA, prima della Champions League, poteva capitare che il sorteggio per il primo turno della Coppa dei campioni proponesse sfide bollenti anzichenò. Per esempio: stagione 1978-79, Nottingham Forest-Liverpool. Campioni d'Inghilterra contro campioni d'Europa, subito, ai sedicesimi di finale. La terribile banda di Brian Clough sembra faticare, in campionato colleziona pareggi, mentre i Reds sono in vena di goleade. Logico siano loro i favoriti. Ma al City Ground si vive la prima di una serie di serate che porterà la contea a occupare un corposo capitolo nel romanzo storico del football. Due gol astuti, specie il secondo, di Colin Barrett (foto) - ruba il pallone a metà campo, poi si lancia in area fino a trovarsi al posto giusto per poter scaraventare la sfera alle spalle di Clemence -, mettono ansia allo squadrone di Paisley, che per guadagnarsi la chance di arrivare al terzo titolo europeo dovrà fare il miracolo ad Anfield. Dal canto suo, Clough sta già progettando barricate epocali.
Cineteca


1989
La deludente trasferta di Malmö

Sto rientrando in casa, non ho ancora trovato il mazzo di chiavi che, dall'appartamento, sento squillare furiosamente il telefono. Dev'essere qualcosa di urgente, senz'altro, e affretto le operazioni. E' lui, e come potevo dubitarne? "Diavolo, non potevano dirmelo che Malmö è a più di 600 chilometri da Stoccolma?". Fingo di non capire, ma solo per evitare di rispondere con una fragorosa risata. Non ti chiedo neppure cosa ci fai lì. "Mio caro, stasera è la serata dei record, la squadra dei record deve battere sempre ogni record, specie in coppa dei campioni". Ah, ho capito. Che squadra? Boh. "Senti, se chiama mia moglie dille che torno abbastanza tardi". Come credi. Ordino una pizza, sono veramente stanco. Sul giornale c'è un articolo interessante circa il piano anti-droga di George Bush che vale la pena di leggere. Mi addormento al secondo capoverso. Nel cuore della notte squilla il telefono. E' la moglie del mio amico. "Se sai dov'è andato, digli che non c'è ragione di tornare". La mattina successiva apprendo dalla radio che l'Inter, nella gara di andata dei sedicesimi di finale di Coppa dei campioni, è stata sconfitta dal Malmö, uno a zero, rete di Håkan Lindman (foto) al minuto 74. Pover'uomo, penso.


1991
Il re senza corona

Anche oggi, come ogni anno, ci sarà grande folla a Kozlu, Istanbul. Gente che, per lo più, va a questo cimitero in maglia giallorossa, quella del Galatasaray. Già. Onorano l'anniversario della morte di Metin Oktay, il 're senza corona', leggendario centravanti del Gala nei 1960s, morto in un incidente di strada il 13 settembre 1991. Centravanti da un gol a partita, che si esaltava specialmente nei derby, contro il Fenehrbace o il Besiktas, quando segnava caterve di gol sfondando le reti avversarie. Era un campione? Certamente pedatori migliori di lui, ai suoi tempi, in Turchia non ne avevano ancora visti. Ma quando tentò l'avventura nel paese dei balocchi (l'Italia) fallì miseramente. A Palermo (stagione 1961-62) doveva essere il trascinatore di un undici appena arrivato in Serie A: compito più grande di lui. Forse era troppo giovane; tornò subito a casa, e riprese ad argomentare, un gol dopo l'altro, le ragioni della propria popolare sovranità.

21 giugno

1964
La gran victoria del fútbol español

La Spagna è cambiata. Un po' come si appresta a fare l'Italia. Basta con gli oriundi. I fuoriclasse di svariate origini emigrati a Madrid e a Barcellona non vengono più chiamati a far parte della Selección. E la Selección raggiunge un traguardo notevole: la finale del secondo campionato europeo. La gioca in casa, al Bernabéu, contro i sovietici detentori. La vince, grazie a un memorabile gol di testa - con tuffo e avvitamento - segnato da Marcelino Martínez Cao, attaccante del Real Zaragoza e componente della famosa linea de "los 5 magnificos". La squadra è giovane e incosciente, c'è gente che corre veloce; il ritmo è infernale. Il Generale Franco è in brodo di giuggiole. Anche Monsù Poss è ammirato: "Era tempo, parecchio tempo che non vedevamo operare una squadra a quel modo. Essa ci ha ricordato, pensandoci su, quei due famosi incontri Italia-Spagna di Firenze del campionato del mondo del '36". Monsù, intanto era il 1934, e non crediamo che sia un paragone azzeccato. Morale della favola? "Con questa sua squadra e questa sua vittoria, la Spagna ha salvato il torneo che era quest'anno chiamata ad organizzare. Quella finale, quel grande incasso a cui ha dato luogo e con lo spettacolo grandioso che ha provocato, ha salvato una manifestazione che, a padroni di casa battuti, poteva anche provocare un piccolo disastro. La pietra finale ha salvato l'intero edificio". Insomma, fu una "gran gran victoria del fútbol español"; ma le Furie Rosse, da quella sera e per quasi mezzo secolo, conosceranno solo delusioni e sconfitte.
Cineteca | Eupallog Eurostorie


1978
El Loco

Ramón Quiroga Arancibia. E' un portiere, è nato qui, a Rosario, e qui ha imparato il suo mestiere. Poi è andato a a difendere i pali dello Sporting Cristal di Lima, poi all'Independiente di Avellanda, poi ancora (e tuttora) allo Sporting. Ha scelto di essere peruviano, e oggi gioca per il Perù. A Rosario, nella sua città. Lui, argentino, è il portiere del Perù in una partita  contro l'Argentina decisiva per l'Argentina, che si disputa nello stadio in cui ha imparato a infilare i guantoni. A Lima lo chiamano 'El loco' (soprannome di tanti portieri), perché non ama presidiare la propria area; cerca applausi e invenzioni anche in altre parti del campo. Pazzo è tuttavia anche il suo destino. E pazzesca la partita, perché all'Albiceleste non basta vincere; deve stravincere. Le sono necessari almeno quattro gol di scarto per avere la finale. E, guarda caso, vince con un risultato più ampio di quello che la matematica pretendeva. Sei a zero. Tante cose del mundial argentino verranno discusse negli anni a venire. Tra queste, anche la presunta corruzione del 'Loco'. Ma, a riguardare le sei reti, di non tutte sembra lui il responsabile. Tutte troppo, troppo facili.
Cineteca


1988
La trasformazione dell'Olanda

Bene e Male / Guarda, amore, guarda la tv: / Arancione, Gullit, Bianco. / Bianco, Matthaus, nero. Ci vuol poco ad ammetterlo: questi versi non sono granché. Anzi, sono pessimi, anche se usciti dalla penna di Eric van Muiswinkel, eclettico artista nato dalle parti di Utrecht, e dunque compaesano di Van Basten. E' accaduto qualcosa di strano, in Olanda. I cittadini di Amsterdam sono corsi in strada per gettare simbolicamente nel cielo le proprie biciclette, e i poeti sollecitati a versificare. E' accaduto qualcosa di storico:  a Gullit e Van Basten è riuscita l'impresa che mancarono Cruijff e Neeskens: battere i tedeschi a casa loro. Eliminarli in semifinale dal campionato d'Europa che avevano organizzato nella certezza di vincerlo. E' accaduto qualcosa di insolito: il rancore degli olandesi nei confronti dei tedeschi esplode a decenni di distanza dalla fine dell'occupazione nazista. Dalla fine della guerra. Anche i giocatori (in attività e no) scrivono poesie, in rude 'stil novo': Quella nuova maglia è buona soltanto / perché vi ci puliate il sedere, è l'elegante chiusa di un sonetto affidato alla posterità da Johnny Rep. "La trasformazione nazionale che avvenne quel giorno appare in tutta la sua chiarezza proprio in Jonglbloed, che il giorno precedente la partita aveva dichiarato come qualsiasi rancore tra olandesi e tedeschi fosse ormai evaporato. Il giorno dopo l'incontro, a nome della squadra del 1974, scrisse un telegramma alla formazione del 1988 in cui si leggeva: Siamo stati liberati dalla nostra sofferenza" (Simon Kuper).


  • Vedi anche le partite del 21 giugno in Cineteca

18 giugno

1922
L'epilogo della ruvida epopea vercellese

Il campionato italiano di Prima Divisione dell'annata calcistica 1921-22 fu l'ultimo dei sette vinti dalla Pro. Si concludeva così "la ruvida epopea degli autodidatti vercellesi" (Brera), in una scontata gara di ritorno della finalissima, giocata sul campo amico, il "Principe di Napoli", contro un club romano-papalino, la Fortitudo (Società di Ginnastica e Scherma). All'andata fu tre a zero per i piemontesi. Come oggi, anche a quei tempi l'eccessivo successo generava noia e assuefazione. "Poco pubblico è accorso sul campo della Pro Vercelli per assistere alla finalissima del campionato confederale di foot-ball, nella quale le squadre hanno giocato con poca passione. La sicurezza della vittoria dei vercellesi era troppo evidente e essi hanno voluto anche scherzare, cosicché si sono visti segnare dagli ospiti due goals consecutivi" (La Stampa). Gli ospiti, dal canto loro, se ne videro segnare cinque. Onorevole sconfitta, tutto sommato.
Campionato 1921-22

1972
Der Bomber

La logica dei numeri non ha fascino, e talvolta genera valutazioni effimere. Ci sono pedatori che ne prescindono, altri la cui parabola agonistica può esserne invece scientificamente rappresentata. Lui è uno di questi. Vediamo un po'. Gli è capitato di non gonfiare la rete in ventitré occasioni, su un totale di sessantadue apparizioni con la sua nazionale (equamente distribuite tra amichevoli e competitive); di queste ventitré, solo sette contavano qualcosa. L'ultimo dei suoi sessantotto gol l'ha segnato nell'ultima partita, che era anche l'ultima e decisiva di un mondiale: naturalmente, fu quello decisivo (a Monaco, nel '74). Era il suo mestiere: risolvere le partite. Nel '70 risolse il quarto con gli inglesi, nell'extra-time; in semifinale fece all'Italia (sempre nei supplementari) il gol del 2 a 1 (sembrava finita per gli italiani) nonché (quando sembrava finita per i tedeschi) quello del 3 a 3. La fase finale degli europei disputata in Belgio nel '72 fu decisa da lui: doppietta ai padroni di casa in semifinale; doppietta in finale ai sovietici (ad aprire e a chiudere un inappellabile 3 a 0). Fu un centravanti assolutamente archetipico: il rapinatore d'area, quello in grado di intuire traiettorie sporcate e di calamitare la sfera, sbucando fulmineo da mischie affollatissime e crude. "You have to react quickly, or the chance is gone", diceva. Si sta naturalmente parlando di Gerhard ("Gerd") Müller; quel "Kleines dickes Müller" del 1964 che, in capo a un decennio, divenne per i tedeschi "der Bomber der Nation". Per la Germania e per la Baviera: "Tutto quel che è diventato il Bayern lo si deve a Gerd Müller". Parola del Kaiser.
Germania-URSS: cineteca | Eupallog Eurostorie


1978
Il centravanti inesploso

"La maggior tristezza nella mia carriera è il modo in cui fummo eliminati nel mondiale del 1978. Eravamo imbattuti, ma andammo fuori per il 6 a 0 subito dal Perù contro l'Argentina". Parole di Carlos Roberto de Oliveira, ma lo chiamavano Roberto Dinamite perché dai suoi piedi esplodevano gol di inaudita potenza. Era il centravanti della Seleçao, la notte in cui a Rosario si disputò il Gran Clásico del Sudamerica, che valeva una prenotazione del Monumental di Baires per la finale. Roberto Dinamite era la leggenda vivente del Vasco de Gama, il suo club, per il quale giocò più di mille partite, segnando centinaia e centinaia di reti. Lo ritenevano un campione. Ma i campioni sono quelli che decidono le partite decisive. Lui, in quei novanta minuti, si trovò per ben tre volte solo davanti a Fillol, goleiro dell'Albiceleste. Tre grandi occasioni: una dopo l'altra, le fallì.
Cineteca

1980
Le barbe del Belgio

All'Olimpico, ultima partita del girone. Miracolosamente scampati a una sconfitta contro la Roja, meritatamente vittoriosi contro i leoni di Albione, gli azzurri dovevano assolutamente battere il Belgio per accedere alla finale del Campionato d'Europa. Ma i quattro barbuti  - Van Moer, Ceulemas, Gerets (foto) e Millecamps ("barbe però più nazarene che terroristiche, barbe cintanti, facce abbastanza chiare") -  avvolsero la partita in una vischiosa melina. Botte da orbi, gli italiani non trovarono intuizioni né sufficiente bravura per uscire dalle sabbie mobili. I belgi, "con calma da bonzi", perdevano tempo in ogni occasione, diluendo il ritmo e il tempo del gioco: "si giocava una partita per aria, tra soli corpi, e una rasoterra anche col pallone. I belgi la giocavano col fuorigioco, gli italiani li assediavano con una sorta di paura di essere uccellati. La gente sovente taceva, come schiacciata da una nemesi" (Giampaolo Ormezzano). Arrivò il fischio finale, e le cose erano ancora esattamente come all'inizio. Il gol, una chimera.


  • Vedi anche le partite del 18 giugno in Cineteca

10 giugno

1928
Il miracoloso pareggio

Allora Monsù, com'è andata? Perché non ci ha ancora trasmesso il resoconto di questa benedetta partita? D'accordo: lei è alla quinta Olimpiade ed è ancora amareggiato per la sconfitta degli azzurri in semifinale; l'oro del calcio è conteso da Uruguay e Argentina: pazienza. "Il grande torneo olimpionico è incappato in una interruzione sorprendente proprio all'ultimo momento, ieri, quando due squadre stavano per disputarsi la finalissima del torneo". Ah, ora tutto è chiaro. Non hanno giocato. "La sorte non ha voluto che la finalissima del torneo internazionale di calcio fosse liquidata ieri davanti a 35000 persone, ché tante erano presenti alla prova". Quale sorte? Che è successo? "La grande prova è terminata senza vincitori né vinti". Insomma, Monsù, è un resoconto che si presta ad equivoci. "Un vero miracolo non ha voluto che l'incontro fra le due squadre dell'America latina avesse una conclusione positiva". Positiva? "Il Comitato organizzatore è quindi interpellato e dopo breve discussione decide di far ripetere l'incontro per la finalissima mercoledì alle ore 19". Un pareggio, che miracolo. Ci sentiamo, Monsù Poss. Scribacchino, lo metta in chiaro, almeno nell'occhiello: uno a uno, gol di Petrone (foto) e di Ferreira.
Cineteca


1934
Al diavolo l'estetica!

"Animati dalla presenza del Duce i calciatori italiani conquistano il campionato del mondo" (così, a nove colonne, il Corriere della sera, che dosava benissimo l'uso delle maiuscole). E La Stampa? Sempre a nove colonne: "I calciatori italiani alla presenza del Duce conquistano il campionato del mondo"; identico il dosaggio delle maiuscole, leggermente variato il ruolo (di semplice astante) attribuito al Duce. E la rosea? "Gli azzurri conquistano alla presenza di Mussolini il Campionato del Mondo". Varianti adiafore, qualche maiuscola in più. Stampa di regime, ça va sans dire. Meglio ricorrere alla narrazione ex post del maestro, che inizia così: "Il ducione ha promesso di assistere alla finale e si fa acquistare un biglietto per dare il buon esempio in quella che poteva e può definirsi, a ragione, la seconda capitale dei portoghesi". E questa è la partita. "Il primo takle operato da Monti si spegne sinistramente su una caviglia si Svoboda, che è il regista degli avversari". Naturalmente "la nemesi punisce immancabilmente gli italiani, colpevoli di tanto determinismo, e l'anziano Puc riesce a infilare Combi con un diagonale carico di diabolici effetti". Poi, dopo che Svoboda colpisce un palo "con la caviglia buona", ecco che "il brivido viene disinvoltamente assorbito per una improvvisa esplosione di Orsi". Si va verso l'epilogo atteso da uno "stadio gremito di fervidi patrioti, non proprio di sportivi". Il primo tempo supplementare è iniziato da poco: "Guaita appoggia verso destra quando tutta la difesa avversaria si aspettava la solita insistita apertura a sinistra; sulla palla invitante di Guaita arriva Schiavio ingobbito dalla voglia: il suo destro è una vera e propria esecuzione. Planicka vola per deviare ma ricade affranto". Titoli di coda: "Gli azzurri ricevono premi ingenti. I cechi si dicono derubati e Praga gli decreta ugualmente il trionfo. I commenti tecnici sono quasi tutti malevoli". E Monsù Poss? "Al diavolo l'estetica!", risponderà.

1962
Capolinea ungherese

Campo spelacchiato, tribune assolate ma non deserte a Rancagua. Si sfidano due undici d'Oltrecortina. Una classicissima del calcio d'Europa: Cecoslovacchia-Ungheria. Tutti si aspettano - forse per un moto di comprensibile simpatia - che vincano i magiari. I cechi però non scherzano: prendono pochi gol, se vogliono addormentano le partite e schierano uno dei migliori giocatori visti sui prati cileni: Josef Masopust. E' proprio lui che, intorno al quarto d'ora del secondo tempo, riceve un pallone sulla tre quarti. Pressato, si decentra, ma poi verticalizza improvvisamente, di sinistro. Libero, poco fuori dell'area, evitata la trappola del fuorigioco, c'è Adolf Sherer (foto) - il centravanti, di origini evidentemente tedesche, appena ingaggiato dallo Slovan di Bratislava. Il suo movimento è perfetto: lascia scorrere la sfera mentre si gira, e quando entra nei sedici metri tutti capiscono come finirà l'azione. Con uno shoot preciso, rasoterra e angolato. Uno a zero: ungheresi al capolinea, cecoslovacchi già in viaggio verso Viña del Mar, dove sono attesi dagli imprevedibili fratellini di Tito.
Cineteca

1978
Vittoria di prestigio

Se Argentina-Uruguay è il derby italiano del Sudamerica, Argentina-Italia è un derby italiano e basta (o quasi). Immigrati oppure oriundi, generazioni che si fondono e si confondono, c'è sempre un biglietto di andata e spesso uno di ritorno. Stavolta no, si gioca al Monumental ma non conta nulla, nessuno andrà o tornerà a casa. Chi vince, vince il girone, si toglie una soddisfazione, le soddisfazioni fanno bene al morale. Vince l'Italia, l'ancor giovane Vécio schiera la formazione-tipo, ma la sfianca per difendere vittoria, prestigio e democrazia, sicché la fatica accumulata appesantirà le gambe nelle gare davvero decisive. Certo, il gol di Bettega è un capolavoro che rimane scolpito nella memoria, oltre che nelle tabulae del mondiale: "un triangolo perfetto, dentro il quale la difesa argentina rimase persa più di un cieco in mezzo a una sparatoria" (Galeano).

  • Vedi anche le partite del 10 giugno in Cineteca

2 giugno


1959
Lo Schiaffino di Alessandria

Domenica mattina. In questa città di provincia del Piemonte un signore di età piuttosto avanzata è uscito presto di casa, quattro passi nella frescura e prima di tornare si ferma in edicola e acquista il giornale. Lo sfoglia rapidamente, si ferma solo alle pagine dello sport. E' vero, oggi finisce il campionato, pensa. In verità è già finito, lo ha vinto il Milan. Scuote la testa, ci dev'essere un pensiero che lo rattrista. Eccolo: il Toro va in serie B, la matematica non è un'opinione, e i punti sono quelli: tre meno della terz'ultima. Nella città in cui vive il signore in questione spesso il Toro veniva a giocare, e qualche volta persino buscava. Lui andava allo stadio, erano bei tempi. Dieci, quindici anni fa, non il secolo scorso. Poi si sa com'è finita, lasciamo perdere. Quasi quasi. Ecco, sarebbe la giornata buona per andare alla partita, c'è il sole ma non fa ancora troppo caldo. Il giornale è rimasto aperto sulla pagina delle cronache sportive. L'uomo inforca gli occhiali. "Anche ad Alessandria incontro di cartello per l'ultima gara casalinga dei grigi. Di scena sarà l'Inter e la partita non dovrebbe riservare molte emozioni poiché le due squadre sono in posizione tranquilla di classifica. Gli ultimi cinque incontri positivi hanno definitivamente salvato l'Alessandria dalla retrocessione". Almeno questo, sospira. "Tra le file dei grigi è annunciato l'esordio del più giovane giocatore d'Italia della massima divisione, Gianni Rivera, nato il 18 agosto 1943 nel sobborgo di Valle San Bartolomeo". Ah, gioca il ragazzino? "Rivera non ha ancora sedici anni e già lo si vedrà alle prese contro fortissimi avversari. E' tempestivo il lancio del ragazzo a fine campionato, impegnato in una prova molto severa, senza una adeguata preparazione e acclimatazione alle gare di responsabilità? " Mah. "Certo l'attesa è vivissima tra le file degli sportivi locali che, con esagerata euforia, hanno definito il sedicenne debuttante niente meno che lo Schiaffino alessandrino". Mah. Ecco il portone di casa. Fine della passeggiata. L'uomo avvolge pensieri e giornale da qualche parte, e chissà se dopo pranzo deciderà di andare alla partita.



1971
Totaalvoetbal

Un gruppo di pedatori olandesi schierato con la grande coppa per le foto-ricordo non regalava immagini assolutamente inedite al continente calcistico. Detentore era il Feyenoord, e aveva trovato un posto nell'albo d'oro sgominando il Celtic, che aspirava alla seconda nicchia. E ancora due anni prima, in fondo, i lancieri avevano pure e appunto già lanciato la loro sfida, respinti dall'esperta (è un eufemismo) truppa rossonera. Exploit che molti superficiali osservatori ritenevano casuali, nell'epoca in cui il calcio praticato dalle nazionali rifletteva ancora la tradizione dei club (e viceversa); e nessuna pagina rimarchevole avevano mai scritto, dalle origini del gioco, la terra dei mulini a vento e le squadre delle sue maggiori città. D'altra parte, che significativi e irreversibili mutamenti fossero in atto è testimoniato anche dallo sparring-partner dell'Ajax sul sempiterno prato di Wembley. Nessuno più dell'uomo che sbucava dal tunnel, guidando i verdi del Panathinaikos all'inevitabile sacrificio, poteva rappresentare il passato, quale testimone di un football definitivamente consegnato a storie e leggende. Ferenc Puskás non era solo l'Aranycsapat o il grande Real: simboleggiava il calcio della mitteleuropa che era stato sempre avanguardia, sin dagli anni '20, calcio di grandi e inutili vittorie e di inattese e importantissime sconfitte. A lui il compito di testimoniare l'avvio di una nuova epoca, perché l'antica non venisse del tutto dimenticata.
Fu dunque alla sacerdotale presenza di Puskás, estemporaneo allenatore del Panathinaikos, che il ventiquattrenne Johann Cruijff, l'Ajax disegnato da Rinus Michels e il suo rivoluzionario Totaalvoetbal, poi replicato con maglie di colore diverso nella competizione fra le nazioni, si presero la Coppa, avviando un'egemonia tecnica e soprattutto culturale che, per molti aspetti, perdura.
Cineteca



1978
Il girone de la muerte

A distanza di poche ore l'una dall'altra, Italia e Argentina - sorteggiate insieme nel girone de la muerte - debuttano alla coppa del mondo. Los italianos nell'assolato pomeriggio di Mar del Plata; l'albiceleste tra i coriandoli del Monumental. L'inizio è, per entrambe, nefasto. Gli azzurri vanno sotto dopo pochi secondi, praticamente senza mai sfiorare la pelota; l'Argentina dopo nemmeno dieci minuti (foto). Il discorso intavolato da Francia e Ungheria è di fondo abbastanza semplice: non hanno attraversato l'Atlantico solo per abbuffarsi di parillada. Furente e sgarbata la reazione degli ospitanti, serena ed elegante quella italiana. Entrambe vincono di rimonta, e agli osservatori più sgamati tutto appare chiaro sin da queste due prime partite: gli azzurri giocheranno il miglior calcio del torneo; gli argentini non si concederanno alcuno scrupolo, pur di vincerlo.
Cineteca: Italia-Francia | Argentina-Ungheria


1993
Anche a Oslo gli inglesi subirono una dura lezione

A ben guardare, il pallone degli inglesi, quando attraversa la Manica o lo portano su terre aliene varcando i mari e gli oceani, si sgonfia subito. Gli amici americani stravedono per loro - o fingono di stravedere -, e certo avere al mondiale la Norvegia invece dell'Inghilterra non sarebbe una bella cosa. E invece andrà esattamente così. A Oslo, la truppa albionica - maldiretta da Graham Taylor, che improvvisa soluzioni e strategie per rimediare strategicamente a soluzioni che improvvisamente non funzionano più - sbanda e incassa un due a zero che comporta la necessità di andare a vincere in Olanda, il prossimo 13 ottobre. Certo, come no. La stampa britannica ha capito l'antifona e asseconda gli umori dei followers: "We're so bad, it's unbelievable". Vuole la testa di Taylor, che ha scommesso tutte le sue carte su un cerebrale 3-4-1-2: "era un piano di gioco coraggioso e immaginifico, ma preparato con una sola sessione di allenamento, e mentre l'Inghilterra cercava di disporsi ordinatamente in campo, la Norvegia aveva già vinto la partita" (Joe Lovejoy, The Independent).

9 maggio

1956
Volevano fare uno show

E' una selezione giovane, quella inglese che affronta per la prima volta nella storia il Brasile. Naturalmente a Wembley. I più esperti sono senz'altro Matthews e Wright (nella foto, con Nilton Santos); ci sono le giovani stelle di Busby, i poveri Duncan Edwards e Tommy Taylor. C'è anche, all'esordio, Colin Grainger, inside left dello Sheffield United, appena sprofondato nella serie inferiore grazie a un disastroso finale di stagione.  I brasileri hanno Gilmar e i due Santos e Didi, gli unici che ritroveremo al Råsunda tra due anni, nella finale della Coppa Rimet. Illusoria, dunque, la maramalda vittoria albionica: quattro a due, e doppietta proprio di Grainger. Quanto a presunzione, tuttavia, i brasiliani non sono mai stati inferiori a nessuno: "Qualche giorno prima avevamo perso con l'Italia, e quindi volevamo fare uno show", disse uno di loro. Infatti.
Cineteca




1968
Nel maggio del Sessantotto ...

Nel maggio del Sessantotto la Juventus disputò per la prima volta nella sua storia le semifinali della Coppa dei campioni. Si potrebbe ironicamente dire (vista la simbolica coincidenza cronologica) che fu un evento rivoluzionario, ma la Juve di quegli anni era definita "operaia", non aveva icone beat da far strappare i capelli alle ragazze e la guidava uno che soprannominavano "ginnasiarca" o "sergente di ferro". Un'edizione pur sempre 'istituzionale' ma lontana anni luce dal profilo elegante e nobile (dallo 'stile') del club potente e dedito al potere di altre stagioni. Una semifinale, però, è roba seria. L'avversario è temibile, perché è il Benfica, bacheca già ricca e abitudine a partite come questa, diverse stelle fra cui ovviamente quella lucentissima di Eusébio. Chi lo marca? In prima battuta, pare Del Sol. Un po' lui se ne preoccupa, perché è alto la metà (dicono: che esagerazione!), e soprattutto quando giocava nel Real ci ha già perso contro una finale. Ma lo spagnolo non è tipo da tirarsi indietro, ha vasta esperienza, dicono sia vecchio (che malignità) ma ha ancora fiato ed energie da vendere. E se non lui? Beh, pare che Heriberto abbia allertato Bercellino. Dicono però (altre malignità?) che quando gli ha prospettato l'ipotesi lui sia sbiancato, vittima di un lieve ma autentico choc. Alla vigilia i giornalisti stuzzicano un po' il difensore, e lui non ha difficoltà ad ammettere di essere preoccupato - e chi non lo sarebbe -, dunque si limita a promettere che (eventualmente) francobollerà Eusébio sportivamente e accuratamente, senza infierire su quel ginocchio sinistro del mozambicano che un po' male da tempo gli fa. Dal canto suo Mário Esteves Coluna, capitano del Benfica, diffonde la scaletta preparata in vista del concerto all'Estádio da Luz: "Per andare tranquilli a Torino, dobbiamo vincere con due gol di scarto qui a Lisbona e io sono convinto che riusciremo a raggiungere questo traguardo". Sapeva il fatto suo, Coluna. Quando, a venti minuti dalla fine, Eusébio aggancia un pallone in area, controllandolo lo sposta sul sinistro (che gesto: leggerezza e classe infinita), e poi di esterno destro trafigge Anzolin, la partita (e la semifinale) si compie. Dai turni di notte, gli operai smontano sempre con un senso di stanca tristezza, con il sospetto d'essere forse più poveri di quel che in fondo e in realtà essi sono.


1978
Orgoglio corso

Lo Sporting Club di Bastia non era mai stato (né mai sarà, da allora in poi) ai vertici del football nazionale e internazionale. A spiegarne la fiammata europea della stagione 1977-78 sono però sufficienti due nomi di pedatori non indigeni; due affermate stelle che decisero di trascorrere sul mare della Corsica uno spezzone di carriera: ormai al tramonto quella di Dragan Džajić, già castigamatti della Stella Rossa e della Yugoslavia di fine anni '60, che militò nel Bastia fra il 1975 e il 1977, trascinando la squadra al 3° posto della Ligue 1 1976-77 e dunque alla qualificazione per la Coppa Uefa della stagione successiva; in pieno spolvero quella di Johnny Rep (nella foto, a destra ...), centravanti della nazionale Orange e pochi anni addietro spietato finalizzatore nell'Ajax dell'era Cruijff. Certo l'epilogo fu mesto, e (apparentemente) abbastanza scontato. Il sogno di essere la prima compagine di Francia ad alzare una coppa si infranse nel piccolo (ma ai tempi ultra-moderno) stadio di Eindhoven, e a suonare la sveglia fu il rampante PSV. Giornate memorabili, in ogni caso. Johnny se ne andrà nel 1979, e lo Sporting Club tornò rapidamente nella penombra della Division 1.


1990
Paradiso blucerchiato

Abbonata da due stagioni alla Coppa Italia, la Samp frequenta il salotto buono d'Europa, e ha già sfiorato l'impresa giusto un anno prima, quando fu però seccamente sconfitta in finale di Coppa delle coppe dal Barça. Alla vigilia dell'anniversario, è di nuovo arrivata in fondo al torneo. Trova un avversario teoricamente più malleabile, anche se di lunga militanza nelle competizioni continentali: l'Anderlecht di Bruxelles. Si gioca al fresco del nord, nel modernissimo Ullevi di Göteborg. Non è una passeggiata tra i boschi: i belgi si arroccano e resistono, ma la superiorità doriana è evidente. Sblocca e decide Gianluca Vialli (foto), nell'extra-time. "Se non vincevo questa Coppa, mi buttavo giù dall'aereo", assicura Roberto Mancini nel dopo-partita.


  • Vedi anche le partite del 9 maggio in Cineteca

25 aprile

1908
Lupi affamati

Al Crystal Palace doveva essere una formalità. Epilogo di FA Cup scontato: da un lato il Newcastle, club dominante, campione d'Inghilterra non ancora scalzato, alla terza finale (le precedenti perse) in pochi anni; dall'altro il Wolverhampton, modesto undici di centro-classifica della Seconda divisione. I Wolves arrivano in fondo anche grazie a sorteggi favorevoli: una sola squadra di First sul loro cammino, il Bury, al secondo turno. Per i Magpies è stata una navigazione più ardua, ma relativamente. Insomma: il pronostico è chiuso, e naturalmente viene ribaltato. Tre a uno. Rete decisiva di William Ewart "Billy" Harrison, interno destro, leggenda del club. Non perciò i Wolves decollarono. Torneranno sulla scena della Prima divisione solo nei 1930s.


1978
Il moltiplicatore di miracoli

Si compie, con una vittoria sul campo dell'Ipswich Town, il primo tratto della clamorosa traiettoria disegnata dal Nottingham Forest alla fine dei 1970s. Il titolo di campione d'Inghilterra è matematicamente in tasca, e lo scontro diretto col Liverpool del 4 maggio sarà solo una festosa passerella. Bene. I Tricky Trees arrivavano dalla Seconda Divisione; e, dunque, quello di Brian Clough (statua) fu un autentico miracolo. E miracolo genera miracoli: grazie a quel solo (e isolato nella storia del club) titolo, arriveranno in sequenza due Coppe dei campioni e una Supercoppa d'Europa. La bacheca del club è (quasi) tutta qui.



1990
Non possiamo neanche dire che hanno segnato in fuorigioco

Il Meazza è stracolmo di gente arrabbiata. Sono i tifosi (ultras e non) milanisti, che si reputano defraudati dello scudetto e hanno voglia di farlo sapere esponendo chilometri di striscioni (foto). Chissà se hanno visto la partita. La partita è quella di ritorno della finale di Coppa Italia, certo non è che stuzzichi l'appetito, anche perché la Juve di questi tempi non è quella gran cosa, l'andata è finita senza gol, figuriamoci se i rossoneri non ne segnano almeno uno anche in novanta, anche in centoventi minuti. Beh, non solo rimangono all'asciutto, ma sono così distratti e furenti che finiscono subito nella trappola che erano soliti tendere agli avversari. Sulla verticalizzazione di Marocchi scatta Galia, che è in posizione regolare e uccella Giovanni Galli con un tocco in controtempo di intelligenza notevole. "Alle 17.35, quando mancano dieci minuti alla fine, a centinaia i rossoneri, lividi e cupi, lasciano gli spalti. Quelli che scendono dopo che sul grande schermo compare la Coppa Italia nelle mani di Zoff, riempiono le scale di silenzio. Cinque minuti trascorrono prima che un ragazzo la butti sul ridere: E adesso? Non possiamo neanche dire che hanno segnato in fuorigioco. Accennano un sorriso i suoi amici, ma gli altri restano torvi" (Piero Colaprico, La Repubblica).


2014
Tito

Non brillò particolarmente, come calciatore. Prometteva però di diventare un ottimo allenatore, crescendo alla scuola del Barça; era stato designato successore del Pep. Un'eredità pesante. L'incurabile male gli ha portato via tutto ciò che poteva avere e che poteva dare. Francesc ('Tito') Vilanova i Bayó se n'è andato, non aveva ancora cinquant'anni.

  • Vedi anche le partite del 25 aprile in Cineteca

5 aprile

1902
Ibrox Disaster

Il secolo breve era molto giovane. Per alcuni finì a Ibrox Park. Già. Un ingrato destino aveva selezionato 25 anime, 25 fra le 70.000 che nel pomeriggio del sabato erano là per godersi Scozia-Inghilterra. Fu la tribuna occidentale a collassare. Fatalità?
R. S. Shiels, The Fatalities at the Ibrox Disaster of 1902 ("The Sports Historian", 18/2, 1998).







5 aprile 1908
L'amico Fritz

Fritz Becker. Nella foto, è il terzo tra i giocatori, da sinistra. L'XI schierato ha quella maglia così strana, ma l'aquila stampata sul petto è inequivocabile. Sì, è la Germania. La prima Nationalmannschaft che scende in campo. A Basilea, nel piccolo Landhof Stadion, contro la rappresentativa elvetica. E poiché  lui, Fritz Becker, attaccante dei Kickers di Francoforte, fu il primo a segnare un gol in quella partita, è giusto assegnargli il titolo di protobomber della nazione. Becker fu dunque nonno di Fritz Walter, bisnonno di Uwe Seeler, bisavolo di Gerd Müller, tri­savolo di Karl-Heinz Rummenigge e avo degli avi di Lukas Podolski.
Poldi Podolski? Uhm.

1942
La guerra finirà

Valentino Mazzola esordisce in nazionale quando milita ancora nel Venezia. A Marassi, contro la Croazia - stato fantoccio emerso dopo la dissoluzione del Regno -, che in realtà schiera l'XI del Građanski di Zagabria. Il match è di palese valore propagandistico. In ritiro a Chiavari, gli azzurri "si sono recati a visitare i feriti di guerra degenti in un ospedale della cittadina intrattenendosi a lungo amichevolmente con essi"; il loro spirito "è, come al solito, elevato" (Monsù Poss). Sul campo non hanno problemi, anche se si gioca con vento e acquazzoni. "Mazzola ha stentato a trovare l'equilibrio in corsa sul terreno e, più ancora, a svincolarsi dalla guardia di cui era fatto oggetto. Alla distanza però è venuto fuori", e il suo ultimo quarto d'ora è stato "a spron battuto" (Eugenio Danese). Valentino è un campione, quando finirà la guerra diventerà il capitano, e giocherà in nazionale per tanti e tanti anni, pensano tutti coloro che hanno il tempo di pensare al football.

1978
Scaramanzie teutoniche e illusioni carioca

Non è solo il vento che soffia dal mare del nord a rendere gelida la serata del Volksparkstadion. Intirizzita all'avvio, la Seleçao di Coutinho (foto) si riscalda correndo, e alla lunga domina sulla Nationalmannschaft. E' la sfida tra gli ultimi undici arrivati sul tetto del mondo; gli osservatori ritengono il match un anticipo della finale prevista al Monumental di Baires per il prossimo 25 giugno. I tedeschi sono scaduti a notevole modestia: si sente la mancanza del Kaiser, e Kalle Rummenigge non vale certo (non ancora, perlomeno) Gerd Müller. Possono solo vichianamente contare su corsi e ricorsi storici: un identico test avevano organizzato nell'estate del '73 (tabellino), con vista sul mondiale casalingo, e uguale fu il risultato (zero a uno). Grandi, le risate di Eupalla.

  • Vedi anche le partite del 5 aprile in Cineteca