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2 agosto

1952
Bellezze finlandesi

Finiscono contemporaneamente, i XV giochi olimpici dell'era moderna e il loro torneo calcistico. L'ultimo alloro, "giunto fresco fresco dalla greca città di Olimpia e porto dalle mani di quella che passa in questo momento per la più bella donna del mondo, la finlandese Armi Kuusela, miss Universo" (Monsù Poss), va all'Ungheria. Logica voleva che questo successo sancisse un dominio destinato a durare; in effetti, nel 1953, l'Aranycsapat si prenderà anche la Coppa Internazionale. Ma il suo breve ciclo non andò oltre queste due vittorie, e quella di Helsinki rimane senz'altro la più prestigiosa, colta contro un avversario di valore assoluto (la Jugoslavia) e al termine di una partita dura e difficile. Nel nostro immaginario, la bellezza e la grandezza di questo XI non saranno destinati a sfumare; così come difficilmente, nella memoria dei pedatori magiari, quel giorno verrà separato dal ricordo del dolce sguardo di Armi (foto), l'angelo che li premiò.
Cineteca

1980
Ultima parata socialista alle Olimpiadi

I tedeschi non riuscirono a tenersi l'oro conquistato a Montreal, e dovettero cedere - nell'immenso Lenin Central Stadium - di fronte ai cecoslovacchi. Già: se c'è un'edizione dei giochi di Olimpia che in sé è sufficiente o quasi a rappresentare la storia del football alle Olimpiadi del secondo dopoguerra è proprio quella di Mosca. Guerra fredda e boicottaggio occidentale, ma ultima finale tra due nazionali d'oltrecortina. I tedeschi evocati all'inizio sono infatti e naturalmente quelli orientali, che in terra sovietica persero l'opportunità di conquistare un altro trofeo. Li condannò un gol di Jindřich Svoboda (foto), sconosciuto e modesto attaccante dello Zbrojovka di Brno, entrato in campo a una manciata di minuti dalla fine. Insomma: fossero dell'est o dell'ovest, per i tedeschi la bestia nera di fine anni '70 era sicuramente la Cecoslovacchia. E ci sarà poco tempo per le rivincite: quando rigiocheranno una partita importante, nel 1996, la Germania sarà già unificata e la Cecoslovacchia oramai separata.

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21 luglio

1952
Senza infamia e senza lode

Così, "in modo semplice, normale, pacifico", i poveri 'studenti' vestiti d'azzurro ammaestrati da Carlino Beretta abbandonano la kermesse calcistica di Olimpia; "senza avere destato entusiasmo per la loro condotta, senza avere suscitato recriminazioni per la loro sconfitta, senza che nessuna obbiezione possa essere elevata al riguardo" (Monsù Poss). Già, e pensare che non perdevamo con l'Ungheria da decenni. Del resto, se da una parte ci sono - con tutto il rispetto - Ventura, Mariani, Gimona, Fontanesi e La Rosa, e dall'altra Puskás, Hidegkuti, Kocsis e Palotás (foto), incassare solo tre gol ha quasi il significato di un'impresa. In verità, Brera è assai più sarcastico: "la poca gente che preferisce il calcio all'atletica si fa un sacco di risate alla faccia nostra. Basterebbe un terzino tosto alle spalle dello stopper per mettere in serio imbarazzo Puskas e Kocsis: il povero Carlino Beretta lascia che il greve Azzini segua Palotas, finto centravanti, perché così vogliono i numeri sulle maglie. Il disastro è sicuro. Sul 3 a 0, per fortuna, gli ungheresi si fermano". Amen.
Cineteca


1991
El Ángel Gabriel

E finalmente l'Argentina tornò a vincere la Copa América. Farà il bis due anni dopo, e resteranno gli unici successi raccolti dall'albiceleste della generazione Batistuta. Diego non c'era, ma il protagonista di quell'edizione fu proprio il grande bomber, passato dal River al Boca e in procinto di attraversare l'oceano per trascorrere gli anni migliori della sua carriera sfondando le reti degli stadi italiani. In quell'edizione del campionato sudamericano El Ángel Gabriel fece sei gol, tutti decisivi. L'ultimo lo tenne in serbo per Higuita, il famoso portiere colombiano; controllo perfetto in corsa, e poi destro terrificante di prima intenzione sul palo più vicino. A Firenze avevano già l'acquolina in bocca.


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20 luglio

1939
Peppino a Helsinki

Non era mai andato cosi lontano: una gita a Helsinki, con soste a Berlino e a Riga. A Tallin il traghetto, quattro ore di mare, i più giovani hanno fatto brutte figure. Che posto strano, la Finlandia, il sole non tramonta mai. La partita. Doveva essere una passeggiata, a sentire i nordici, ma non è stata così. Tre a due, tripletta di Silvione Piola, trenta partite consecutive senza sconfitte, ma ormai "nessuno regala nulla alla squadra italiana" (Monsù Poss). Insomma, una bella scampagnata, ora si torna e si va in vacanza; anzi in viaggio di nozze, tra qualche giorno il Peppin legittimamente convola. Già: sono gli ultimi giorni di vita tranquilla. Il matrimonio, poi il "piede gelato", poi la guerra, poi (addirittura!) il Milan. Se ricordiamo questa partita, è perché fu l'ultima che Peppino Meazza giocò con la maglia azzurra. Ma nessuno, allora, poteva saperlo.
Tabellino


1952
La partita che fu un atto politico dello Stato

Olympic Games 1952. Qual è lo stato d'animo dei pedatori sovietici prima dell'atteso match con la Jugoslavia? Lo si può immaginare, se è vero quel che raccontò un giornalista della Pravda: "Alla nostra ambasciata arrivò un telegramma firmato I. V. Stalin, nel quale egli spiegava ai nostri calciatori la portata della responsabilità che incombeva sulle loro spalle. Il compito loro affidato era di natura politica. Nel telegramma si ricordava lo stato delle relazioni tra URSS e Jugoslavia. La partita che li attendeva non rappresentava semplicemente un evento sportivo, ma assumeva il significato di un atto politico dello Stato". Altro che 'spirito olimpico'. Insomma, i rossi sono obbligati a vincere. Non ci riescono. Ma sono protagonisti ugualmente di una specie di miracolo: rimontano quattro gol di svantaggio nell'ultima mezz'ora, e si guadagnano una seconda possibilità. Cinque a cinque e, dicono tutti, è stata la partita più incredibile del Novecento.

1966
Spettatori non paganti

Il giorno dopo il funesto, inaspettato, incredibile, inaccettabile, insopportabile, inesplicabile, inimmaginabile naufragio della corazzata azzurra sullo scoglio coreano, il paese è in subbuglio. Lutto nazionale. Il più lucido è Vittorio Pozzo: "ci vuole un po' di coraggio per dichiararsi sorpresi da quanto avvenuto". Le Camere forse rimangono aperte, ci sono varie interrogazioni presentate da deputati e senatori di tutti gli schieramenti, nessuno (o quasi) escluso; quali sono le ragioni degli "umilianti risultati che hanno sollevato una vastissima ondata di deludente amarezza all'interno e posto il mondo sportivo italiano in condizioni di estremo disagio all'estero"? Dovrebbe rispondere il Ministro del Turismo e dello Spettacolo - in effetti, gli azzurri hanno fatto i turisti in Inghilterra, ma di spettacolo ne hanno dato pochissimo. Il tema di fondo è sempiterno: non è che questi nostri modestissimi pedatori guadagnano troppi quattrini? Lo scafato Franco Evangelisti (foto), onorevole democristiano di stretta osservanza andreottiana e presidente dell'Associazione Sportiva Roma, dal canto suo, minaccia una anti-interrogazione, il Ministro non dovrebbe rispondere ai "vari parlamentari che, da spettatori non paganti, si sono improvvisamente eretti a censori e moralizzatori". E come dargli torto, in fondo? Chist'è o paese d' 'o sole, chist'è o paese d' 'o mare.


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16 luglio

1950
La stretta e ferrea logica del football

Sì, è stata forse la più famosa partita di quel secolo. Esattamente a metà del secolo, quasi a marcare una linea. Prima e dopo. Ma certo, non è che il calcio sia cambiato quel giorno. E' cambiato il Brasile, sì. Il Brasile: perse al Maracanã una partita che gli sarebbe bastato pareggiare, per vincere la Coppa del mondo. Sembra impossibile, vero? Non è così. Quella vittoria in rimonta della Celeste appartiene alla più stretta e ferrea logica del football. I brasiliani avevano  di fronte rivali non inediti, «che conoscevano a meraviglia le finte prodigiose di Ademir, i funambolismi di Jair, il dribbling ubriacante di Zizinho, le serpentine velocissime di Bauer» (L. Boccali): nelle maglie difensive dell’Uruguay si incagliò il temuto e dinamitardo quintetto avanzato del Brasile. La Seleçao attaccò sgangheratamente, innervosendosi col trascorrere dei minuti, sempre più annebbiata dall'ossessione di non riuscire a far sua la partita, schiacciata dagli umori mutevoli di una folla immensa: l'incredulità, l'isteria collettiva, la disperazione, la fine di un sogno, la sconfitta imprevista. La sconfitta impossibile. Il silenzio. «Nel momento in cui i giocatori avrebbero avuto maggiormente bisogno del Maracanã, il Maracanã rimase in silenzio. Non si può affidare se stessi ad uno stadio di calcio» (Francisco Buarque de Hollanda)".
Cineteca


1952
La potenza calcistica sovietica

Finalmente l'Unione Sovietica misura la propria potenza calcistica con quella di altre potenze in una competizione ufficiale.
D'accordo, è solo il torneo olimpico, il calcio alle Olimpiadi (ora che riprende con cadenza normale la Coppa del mondo) viene giocato solo dai dilettanti, ma non tutti i paesi che vanno (calcisticamente parlando) per la maggiore hanno club di pedatori professionisti. L'Ungheria, per esempio. La Jugoslavia, per esempio. Si può dire a Puskás: "sei un dilettante"? Se lui pensa che ci sia un doppio senso, si innervosisce e ti fa otto gol in mezzo minuto.
A ogni modo, baffone decide che a Helsinki ci deve andare anche una squadra di calcio, ed è ovvio che questa squadra di calcio abbia l'obbligo - politico e morale - di vincere il torneo. Per mostrare al mondo cosa sia la civiltà socialista e per propagandarne la superiorità.
L'occidente trema dalla paura. I bulgari no - si parla dei bulgari perché al primo turno il sorteggio fu abilmente pilotato; che le squadre d'oltrecortina inizino a scannarsi tra di loro, poi si vedrà.
I bulgari trascinano lo squadrone rosso ai supplementari, e vanno addirittura in vantaggio. Poi si fanno rimontare, e nessuno può affermare con sicurezza che fu solo una banale vicenda agonistica.

[Tratto da Michele Ansani, Lenta può essere l'orbita della sfera]

1966
À la guerre comme à la guerre

Insomma, è chiaro che - a parte il Brasile e il Cile, per diversi motivi - le sudamericane non sono venute in Inghilterra per distribuire fiori e aranciate agli squadroni europei.
L'Argentina, per dire, le ha studiate tutte pur di insabbiare i panzer teutonici sul prato di Villa Park, costringendo Schön a spostare Schnellinger nella posizione di Beckenbauer - e si indovinerà facilmente l'esito della mossa e il suo indice di genialità. Del resto, Juan Carlos Lorenzo è uno che ha girato il mondo, da pedatore e da allenatore, e ne sa una più del demonio. Sa anche che, in certi casi, non conviene (come vorrebbe l'etica) dare il buon esempio; se c'è una rissa, può essere conveniente renderla ancora più aspra.
Il match finisce zero a zero, e non è stato uno spettacolo. L'unica vera emozione si vive quando, giustamente, l'arbitro decide di cacciare Rafael Albrecht (foto), roccioso difensore del San Lorenzo de Almagro. L'energumeno ha mollato una castagna a Wolfgang Weber, e la palla era abbastanza lontana. Nulla da dire.
Solo che lui (Albrecht) non ne vuol sapere di uscire, si sta divertendo un mondo, non capita tutti i giorni di far baraonda a quel modo. Ecco: Juan Carlos Lorenzo ha capito che non è proprio il momento di calmare gli animi. Anzi. Esorta il suo giocatore a restare in campo. Questo sì, è vero fair-play.
"Ho agito in quel modo per incoraggiare i miei ragazzi a tenere duro, a resistere fino in fondo. Mancavano 25' ed i tedeschi assomigliavano a paracadutisti in azione nell'ultima guerra", dirà.
Ah beh, se è così, allora à la guerre comme à la guerre.
Cineteca
[Tratto da Michele Ansani, Lenta può essere l'orbita della sfera]





27 maggio

1952
I Moscoviti stendono l'Aranycsapat

La rappresentativa di calcio delle repubbliche sovietiche è stata allestita con una missione politico-rivoluzionaria ben precisa: vincere la medaglia d'oro alle Olimpiadi di Helsinki. Sotto vario nome, gioca alcuni incontri di preparazione al torneo. Uno, in particolare, va ricordato, poiché non è riconosciuto ufficialmente dagli organi internazionali: quello che vide sbucare sul prato del Dynamo Stadium, per incontrarvi una 'selezione moscovita' (in realtà la nazionale dell'URSS), nientemeno che l'Ungheria. E' la seconda volta in pochi giorni: la prima finì pari, uno a uno. Stavolta, i padroni di casa hanno la meglio (due a uno), sicché questo match costituirebbe una soluzione di continuità nella striscia vincente della grande Ungheria – ufficialmente, appunto, interrotta solo dalla Germania nella finale di Berna.
Eupallog Storie e microstorie


1961
La coppa della Viola

Triste coppa, la prima Coppa delle coppe. Non è ufficialmente riconosciuta - lo sarà a distanza di tempo, su pressione di Giuseppe Pasquale, presidente della F.I.G.C. Partecipano solo dieci squadre, poiché la maggioranza delle federazioni calcistiche europee non vanta ancora una competizione simile alla FA Cup. In fondo a quella sfiancante maratona di partite, in vista del traguardo, si presentano con pari chances i Rangers di Glasgow e la Fiorentina di Nándor Hidegkuti. La formula, allo scopo di rendere ancora più massacrante il torneo, prevede si disputino gare di andata e ritorno. La Viola sbanca Ibrox Park, il 17 maggio, con una doppietta del Milan (sì, Luigi Milan: figurina); al Comunale, quindi, dove è fissato il traguardo finale, si staglia con un distacco pressoché incolmabile. Segna ancora il Milan (eddai!), poi i Gers pareggiano, ma alla fine Kurt Hamrin mette il cappello e dà a tutti la buonanotte.
Tabellino | Frammenti (con il gol di Hamrin)


1964
La capitale d'Europa

Subentrato al Milan come campione d'Italia, l'Inter si posiziona subito dopo i rossoneri anche nell'albo d'oro della Coppa dei campioni. L'Europa del football è Milanocentrica, grazie a questa sana competizione infracittadina. Al Prater la maramalda masnada herreriana trova di fronte a sé l'antico e cigolante colosso madridista, nel quale i vecchi titani stanno ormai cantando le loro ultime canzoni. E' un repertorio ormai superato, va da sé. Sandrino Mazzola è l'uomo del match, con i suoi due gol; la sua agile freschezza propone al continente una nuova stella da ammirare. E l'Inter sarà ammirata per qualche anno; più per il suo tremendismo che per la bellezza del gioco. Esattamente un anno dopo (il 27 maggio 1965) i nerazzurri si confermeranno sul trono, battendo il Benfica in una fradicia serata milanese, mostrando la coppa nel cielo di San Siro.
Inter-Real: cineteca
Inter-Benfica: cineteca


1971
Capitano, mio capitano

Si spegne, a Sanremo, Armando Picchi. A soli trentacinque anni, quando aveva smesso di giocare da poco, avviandosi a una carriera di allenatore che l'avrebbe portato di sicuro molto lontano. Per andarsene, colpito da una grave malattia, ha atteso il giorno che aveva sottolineato sul calendario, perché coincideva con i suoi ricordi migliori: era lui il capitano dell'Inter nel 1964 e nel 1965; fu lui che alzò la coppa dopo i trionfi sul Real e sul Benfica. "Aveva il volto incavato già a venticinque, trent'anni. E in mezzo ai solchi profondi, appena sotto le rughe della fronte lignea, muoveva occhi di castagna scintillante. Occhi rassicuranti, occhi da far paura; a seconda che il guerriero li usasse, come lui solo sapeva, per dire amicizia o per scagliare addosso l'ira del giusto" (Nando Dalla Chiesa).
In mortem (Giovanni Arpino)


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18 maggio

1952
Le lacrime di Silvio Piola

Ha quasi 39 anni, spende gli ultimi spiccioli di carriera - a suon di gol - nel Novara, che sta portando dove non era mai stato, nella parte alta della classifica del campionato di Serie A. Manca Benito "Veleno" Lorenzi, che della nazionale è il centravanti titolare. C'è da giocare contro gli inglesi a Firenze, e allora richiamano lui. Mancava da cinque anni, l'ultima sua foto in maglia azzurra non era associata a un bel ricordo: fu scattata nel corso di una batosta umiliante al Prater, cinque a uno.
Silvio Piola, con la fascia di capitano, a Firenze, si batte come un leone. Gli inglesi non passano. Quelli che hanno trovato spazio sulle gradinate del Comunale giurano di averlo visto in lacrime. Forse. Sapeva che quel giorno sarebbe stato l'ultimo, per lui, con quella maglia.
Cineteca


1968
Il re dei Baggies

"La causa della morte è ancora ignota, ma non ci sono circostanze sospette", disse una portavoce della Staffordshire Police. Era il 20 gennaio del 2001, e la BBC così annunciava la scomparsa di Jeff Astle, all'età di cinquantanove anni. Chi non se lo ricorda, può scorrere la rosa che Sir Alf Ramsey portò in Messico nel 1970 per difendere il titolo mondiale: il suo nome chiude la lista, la sua maglia portava il numero 22. L'estate messicana offriva ad Astle una grande, ultima vetrina: lui era la star del West Bromwich Albion, che nei primi anni '70 lotterà disperatamente per potersi iscrivere, di anno in anno, alla First Division. Astle era un ariete, uno dei più notevoli - si è detto - specialisti nel gioco aereo prodotti dal football d'Oltremanica. Le migliaia di pesanti sfere di cuoio inzuccate - si è detto - produssero i danni cerebrali che lo spedirono nell'aldilà. Tuttavia, non di testa ma con una fiondata dal limite (foto) si prese, il 18 maggio 1968, la più grande soddisfazione in carriera, castigando ai supplementari l'Everton. Era la quinta coppa nella storia dei Baggies, altre non ne seguirono: e, di quella storia, Jeffrey Astle fu definitivamente "The King".



1994
Il beffardo pallonettone di Dejan

Atene. Milan-Barcellona, per la prima volta di fronte a disputarsi l'Europa. Sulla carta, per taluni (soprattutto per il grande Johan Cruijff, che allena i catalani) il match è squilibrato. "Stiamo attraversando un grande momento, ci sentiamo i più forti. Se poi devo considerare il fatto che al Milan mancheranno due giocatori insostituibili come Baresi e Costacurta, allora capisco perché Capello e i suoi abbiano paura e non si sentano tranquilli, con gli attaccanti che ci ritroviamo, gente capace di segnare 92 gol in 38 partite di Liga". Difatti non ne segneranno manco mezzo. E il Milan solo quattro. Memorabile il terzo, quello che mette in ginocchio i Catalani. Il pallonettone di Savicevic (foto). "Pallonettone da non so quanti metri, Zubizarreta annaspante come un’anatra ferita. Era, Dejan, il ricciolo di fantasia che guarniva una manovra spartana ma precisa" (Roberto Beccantini).
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