Visualizzazione post con etichetta 1950. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta 1950. Mostra tutti i post

5 febbraio

1910
El Cañoncito


Nasce, a La Plata, Francisco Antonio Varallo. Camperà cent'anni, il tempo necessario per vedere il suo record di gol nel Boca finalmente superato - accadde solo nel 2008. Raccolse vari titoli con  Los Xeneizes, e il campionato sudamericano del 1937 con la Selecciòn. "Y será muy justo que los hinchas del fútbol, cualquiera sean sus colores, sepan que usted honra a este deporte, a este juego y a esta pasión" (Julio Grondona).

1950
Le cose a lungo desiderate

Quarta di ritorno, la Juve ospita il Milan da capolista. I rossoneri inseguono a tre punti. Finisce sette a uno - per il Milan: tre gol Nordahl (nella foto), uno Gren, uno Liddas. "Vecchio diavolo d'un Milan. Così largamente ha vinto da guastare un tantino anche il sapore della vittoria, che clamorosa sarebbe stata in ogni caso, ed ora ha il gusto un po' marrano delle cose a lungo desiderate e poi troppo abbondevoli" (Gianni Brera).






1958
Last game


Non era del tutto rassicurante il due a uno rimediato a Old Trafford. Giocare a Belgrado, poi, non è mai facile per nessuno. Perciò i ragazzi di Matt Busby fanno un primo tempo a tutta birra: la Crvena zvezda è annientata, il pubblico ammutolito. Tre a zero, forse non vale nemmeno la pena di tornare in campo. Almeno non con la testa. I Babes si fanno raggiungere, ma poco conta. Per alcuni di loro la semifinale di Coppa dei campioni resterà l'ultimo traguardo raggiunto di un'esistenza eccessivamente breve.


1975
Una storia in un gol

E' una Roja senza stelle e senza risultati, quella che al Luís Casanova di Valencia affronta la Tartan Army in un match del girone che qualifica alla fase calda del Campionato d'Europa. Certo, aveva espugnato Hampden Park a novembre, ma gli scozzesi hanno sete di rivincita. Il morso dello squalo (Joe Jordan) è quasi letale, ma viene restituito dall'esordiente e pressoché sconosciuto Alfredo Megido Sánchez (nella foto). Un'apparizione, un gol: la sua storia è tutta qui.

1986
L'eccezione che conferma la regola


La regola vuole che fra Italia e Germania di solito vinca l'Italia. E' quel che succede nelle partite che contano davvero: finali e semifinali di campionati del mondo e d'Europa. L'eccezione riguarda le partite che non contano nulla. Così, al Partenio di Avellino, i tedeschi arano amichevolmente il campo di patate e riportano una vittoria esterna che mancava loro dal 1929. Bearzot (nella foto) non si preoccupa particolarmente, ma la sua truppa è logora, e i 'nuovi' hanno bisogno di tempo per farsi le ossa.
Tabellino | Highlights


  • Vedi anche Le partite del 5 febbraio in Cineteca

29 gennaio

1887
Un inquieto pioniere

A Madrid nasce Julián Ruete Muniesa. E' tra le figure più significative della protostoria calcistica di Spagna. Gioca nel Real - dove ha pure incarichi societari - ma poi anche nell'Atlético, allora succursale dell'omonimo club basco. Anzi, diventa il presidente dell'Atlético. Inoltre, gli piace fare l'arbitro. Infine, trova il tempo di essere per qualche partita selezionatore della Spagna. Post scriptum: finirà i suoi giorni a Barcellona.
Profilo


1932
L'erede designato

Nasce a Barnsley, e si chiamava Thomas Taylor. Passati i vent'anni, lo prende Busby, e rapidamente diventa uno dei più promettenti fra i Babes. Attaccante abilissimo nel gioco aereo, segna parecchio, per il club e nella nazionale inglese. Lo reputano possibile e degno erede di Nat Lofthouse. Il destino gli nega una carriera luminosa, a Monaco, il 6 febbraio 1958.




1950
Perla del Marocco

La Priméra Divisiòn entra nella fase decisiva. Le squadre sono solo quattrodici. Il Real conduce, ma sono tutte lì - escluso il Barça, attardato. L'Atlético di Madrid e l'Athletic di Bilbao si disputano una candidatura. Finisce in goleada memorabile: sei a sei. Ma i baschi si mangiano il berretto, perché a sei minuti dalla fine vincevano sei a tre. La carica dei colchoneros è suonata da Larbi Benbarek (nella foto), detto 'Perla nera', arrivato da Casablanca due anni prima.
Tabellino | Ben Barek: profilo



1964
Fracaso milanista

Coppa dei Campioni, andata dei quarti, il Milan annega al Bernabéu e virtualmente abdica. Cesarone Maldini si fa male a partita iniziata da poco. Attratti dall'odore del sangue, vanno a nozze tutti i satanassi (Puskas, Di Stéfano, Gento), uno dopo l'altro, introdotti dal nuovo idolo madridista,  Amancio Amaro Varela (nella foto). Il Real sogna di tornare al vertice; ma in finale troverà la parentela rossonera, e l'ambìta coppa resterà a Milano anche per quella stagione.


1985
Platonico bottino

Dopo la finale di Berna del '54, Ungheria e Germania non si erano più incontrate in competizioni ufficiali. Solo in partite amichevoli, di sempre minore prestigio con l'andare degli anni. Curiosamente, negli ultimi trenta, la nazionale ospitante non ha mai vinto. Così accadde ad Amburgo il 29 gennaio 1985: Volksparstadion semideserto, paperona del portiere teudisco (Ulrich Stein - nella foto -, per la prima volta tra i pali dal calcio d'inizio) e gli ungheresi tornano a casa per esibire il platonico bottino.


2011
L'asiatica

L'egemonia calcistica del Giappone sul continente asiatico è quasi inscalfibile. Anche quando la competizione, per far numero, è aperta a nazionali di altri continenti. L'Australia, zeppa di pedatori della Premier League, arriva sino alla finale. Soccombe solo nei supplementari, e segna un coreano naturalizzato - Tadanari Lee, alias Lee Chung-Sung (foto) -, poi scritturato dal Southampton, nel quale milita senza infamia e senza lode.

15 gennaio

1950
Figurina storica

A Firenze si presenta la Juventus. Pari e patta, nemmeno un gol. Un rigore discutibile assegnato alla Fiorentina nel finale: sbagliato. Il solo gesto degno di nota diventa una figurina storica. Parola, nella difesa della Juventus, giganteggia. Un gesto che ai cronisti non poteva sfuggire: "In questo atleta intelligente e combattivo non sappiamo se ammirare più la perfezione della tecnica o la calma dei nervi. Ieri gli abbiamo visto fare una rovesciata a un metro dalla sua rete per cui si è guadagnato un irresistibile applauso a scena aperta" (Ciro Verratti). Un gesto che rimase impresso nella memoria collettiva, immagine di un'epoca. "Parola esegue la sua rovesciata per tutti gli umili e diseredati, disegna l'illusione con la sua acrobazia meditata; la sua rovesciata, in Italia, contende alla pizza napoletana il primato della popolarità" (Vladimiro Caminiti). 
Tabellino


1958
La resa di Belfast

Erano tempi in cui un calciatore irlandese che militasse in un club inglese, se era convocato in nazionale, partiva il giorno stesso della partita. La nebbia, tuttavia, impedì qualsiasi forma di traffico nel cielo del Regno Unito, quel 15 gennaio del 1958; e così, il grande portiere del Manchester United, Henry Gregg, vide la partita soltanto in televisione. L'Italia, invece, potè calare sul campo un bel poker d'assi (fra i quali due ex campioni del mondo 'naturalizzati', Schiaffino e Ghiggia: nel fotogramma la 'carta Ghiggia'). Nonostante ciò, non riuscì a strappare almeno un pareggio; una sconfitta (due a uno) che costava la partecipazione azzurra ai mondiali di Svezia. Ghiggia, anzi, si faceva espellere, lasciando la squadra in dieci mentre era avviata la rimonta. Gli irlandesi giocano tutti in club inglesi e scozzesi, hanno ritmo e tensione agonistica che l'italia non è in grado di reggere. Pagina nera.

13 luglio


1930
Estadio Pocitos, Montevideo

Dove iniziava quella storia? Iniziava nel quartiere di Pocitos, a Montevideo, vicinissimo al Rio de la Plata.
Qui c'era un piccolo stadio, e in questo piccolo stadio giocarono la Francia e il Messico, e fu (insieme a quella che contemporaneamente oppose Stati Uniti e Belgio al Parque Central) la prima partita della prima Coppa del mondo.
All'Estadio Pocitos, però, spetta un ricordo speciale, perché è qui che venne realizzato il primo gol della competizione. Un gol storico, evidentemente, e il suo autore si chiamava Lucien Laurent, e giocava da tanti anni nel Cercle Athlétique de Parisun club ormai scomparso.
Ma è giusto che sia menzionato anche colui che per primo si piegò a raccogliere un pallone rotolato nello spazio che avrebbe dovuto proteggere. Si chiamava Oscar Bonfiglio, giocava nel Club Deportivo Marte di Cuernavaca, la città dell'eterna primavera.
Entrambi, Bonfiglio e Laurent, così come le squadre nelle quali militavano a quei tempi, non ci sono più. Nessuno potrà più chiedere loro di raccontare la gioia e la delusione che provarono in quel momento di un giorno ormai così lontano.
Cineteca
Tratto da Michele Ansani, Lenta può essere l'orbita della sfera



1950
L'improvviso silenzio del 'Cotorra'

Se qualcuno vuole pensare di aver vinto una partita contro l'Uruguay, è bene che inizi a pensarlo solo dopo che l'arbitro ha fischiato la fine. E - anzi - deve sincerarsi che il fischio ci sia stato davvero, e che sia stato quello che (inequivocabilmente) ha messo il punto alla contesa. A dirla tutta: sarebbe bene aspettare che i giocatori avversari si siano tutti rivestiti e il pubblico abbia abbandonato definitivamente lo stadio. Non si sa mai, con la Celeste. Infatti, quando i ragazzoni della Svezia pensano di averla addomesticata, alla fine manca circa un quarto d'ora. Tantissimo tempo, per uno come Óscar Omar Miguez Antón detto el Cotorra, terribile centravanti del Peñarol (foto). E' un tipo indisciplinato, e chiacchiera sempre. Davanti alla porta, però, tace improvvisamente, di modo che nessuno si accorga della sua presenza. Così, gli bastano due attimi di silenzio per castigare la Svezia, e anche il Pacaembu di São Paulo - che ha calorosamente sostenuto i nordici per la paura dell'Uruguay che tutti i brasiliani sotto sotto coltivano - improvvisamente tace.

1966
Santiago è vendicata

Quattro anni dopo, a Sunderland, l'Italia ritrova i vecchi amici del Cile. Una bella rimpatriata. Stavolta, però, i sudamericani sono molto meno aggressivi. Considerano gli azzurri fuori della loro portata e la partita un allenamento in vista dei match decisivi contro coreani e sovietici. Bene. Infatti l'Italia vince due a zero, "Santiago è stata vendicata senza spargimento di sangue" (Antonio Ghirelli). Ma gioca come peggio non si potrebbe. La cosa non sfugge a Monsù Poss: "se noi affronteremo tra un paio di giorni la squadra dell'Unione Sovietica in queste condizioni di forma e di efficienza, saremo senz'altro battuti. Viene da pensare come si potrà fare a battere la Corea stessa". Non esageriamo, monsù. Due punti sono sempre due punti, "possiamo considerarci in pratica ammessi ai quarti di finale" (Ghirelli). Certo, come no. Anzi, dobbiamo soprattutto mettere in conto di vincere il girone, "evitando la spiacevole prospettiva di affrontare nei quarti il presumibile vincitore del gruppo di Liverpool, sua maestà il Brasile" (idem). Infatti, il Brasile lo incontreremo: all'aeroporto, e insieme abbandoneremo questa magnifica terra, trascinando valigie gonfie di mesti pensieri.


  • Vedi anche le partite del 13 luglio in Cineteca

9 luglio

1950
Circo equestre

"In questo paese in cui si bada più al pittoresco che al pratico, il gioco degli atleti in maglia bianca che non ha tatticamente un binario ben definito e che è prevalentemente una fantasiosa improvvisazione, diventa uno spettacolo da ribalta che soggioga ed entusiasma la platea". Il resoconto per La Stampa di Juan Benavente ha poco da raccontare sulla partita. Il Brasile - che è "arte, scienza, circo equestre" - infierisce sulla Svezia (sette a uno), e si crea un magico appeal tra i suoi giocatori e la torcìda. La squadra arrivata dal silenzioso e placido nord dell'Europa rimane "stordita in questo anfiteatro immenso fra boati apocalittici e di fronte ad un avversario che caracollava nella tempesta, vibrando colpi continui, inesorabile e irraggiungibile". Zizinho è l'artista geniale che sforna capolavori senza mai stancarsi, dipingendo "figure rare sull'immensa tela in erba del Maracanã"; non da meno è Ademir Marques de Menezes (foto), mento spiccato e spiccato senso del gol. Ne segna tre, e poi un quarto entrando in porta col pallone.
Cineteca


1987
Infido delantero

Di Antonio non ci si può fidare. Ha giocato in club importanti, molto importanti, andando e venendo sulle due sponde del Rio de la Plata. Sì, Antonio Alzamendi ha giocato nell'Independiente e nel River Plate, nel Peñarol e nel Nacional, è un delantero esperto, insidioso; di solito, sbuca improvviso convergendo da destra, e si ferma solo quando può alzare la braccia ed esultare: com'è accaduto a Tokio, quando ha regalato al River la Coppa intercontinentale, lo scorso inverno. Insomma, sui campi di battaglia si trova a suo agio; attualmente, è ancora di casa qui, proprio qui al Monumental. Ma qualcuno si aspetta che oggi, nella semifinale della Copa América, l'Uruguay riesca a spuntarla nel santuario dei campioni del mondo? Non accade da cinquant'anni. Non ci sono speranze, si dice. La festa è già pronta, vamos Argentina. Ma la festa dovrà essere annullata. Difesa e contropiede, le armi della Celeste, da sempre; Alzamendi, una rasoiata cattiva (foto), Baires è sotto choc.
Cineteca


2006
A testa bassa

Mi telefona un amico, è senza voce - per fortuna, così non può urlare nella cornetta come è sua pessima abitudine. "Mah!", sussurra, "tu cosa fai stasera?".
Ci penso su, ho qualcosa in agenda ma non ricordo cosa.
Ah sì, rispondo, c'è un dibattito alla Casa del Popolo, mi hanno chiesto di partecipare perché temono non ci vada nessuno.
"Beato te", sospira.
Se vuoi, possiamo andarci insieme.
"Sei pazzo?", urla improvvisamente, ed è come se mi fosse esploso un petardo nell'orecchio destro.
"Non dirmi che non sai cosa c'è stasera".
Ci sarà qualche partita, immagino.
"Chiamala partita!".
Non so, dimmi tu.
"C'è la finale, contro i francesi spocchiosi e fortunelli".
Bene, vinciamo facile, no? Non abbiamo già battuto i tedeschi, dov'è il problema?
"Sì, ma i tedeschi hanno Podolski, e nella Francia invece gioca Zidane", precisa con un tono davvero disperato.
Non capisco bene quale sia la differenza, lo sento singhiozzare ma non ho alcuna voglia di escogitare argomentazioni consolatorie.
"Dici che abbiamo qualche speranza?", chiede lamentoso.
Taglio corto: vinciamo. Ai calci di rigore, ma vinciamo.
"Oddio!", dice, e capisco che sta facendo qualcosa di poco elegante.
Ci salutiamo senza aggiungere altro.
Verso sera, subito dopo cena, esco. Finalmente si può andare in bici per la città senza rischi, non c'è in giro anima viva. Anche la Casa del Popolo è deserta, e il dibattito è stato rinviato a data da destinarsi.
Torno a casa, con calma.
Accendo la tivù, appena in tempo per vedere Zinedine Zidane uscire dal campo a testa bassa e passando proprio vicino alla coppa. Non la degna nemmeno di uno sguardo, dev'essere accaduto qualcosa di grave.
La partita riprende, io sono davvero stanco e mi addormento in poltrona, dopo avere staccato il telefono.
Tratto da Michele Ansani, Lenta può essere l'orbita della sfera
Cineteca


  • Vedi anche le partite del 9 luglio in Cineteca

2 luglio

1950
Girone di ferro per l'Uruguay

Inizia e finisce, in una sola partita, il gruppo 4 della fase preliminare. E' composto di due sole squadre, entrambe arrivate qui per rinuncia delle nazioni contro cui avrebbero dovuto guadagnarsi la qualificazione. Bolivia e Uruguay. Per l'Uruguay, un autentico girone di ferro. Non si fa dell'ironia. L'ultima volta, cioè poco più di un anno fa, a Rio, la Celeste ha buscato. Era una partita di Copa América. Era la prima volta che perdeva con la Bolivia, dalla quale anzi non aveva mai incassato nemmeno una rete nelle precedenti occasioni. Però, a ben pensarci, non giocava quasi nessuno dei titolari. La poderosa delantera del Peñarol (Ghiggia, Schiaffino, Hohberg, Vidal, Miguez) era in sciopero, e a far figuracce in Brasile mandarono dei ragazzini. Ora la situazione è diversa. Gli assi ci sono, e soprattutto sono tirati a lucido. Sono tra i candidati al titolo, e hanno voglia di dimostrarlo. Infieriscono senza pietà: otto gol, ben distribuiti tra primo e secondo tempo. L'Uruguay è una bomba ad orologeria.
Cineteca



1982
Tu quoque, Diego?

Per sfortuna di Ciro Menotti, il centravanti del Brasile non è più quello del 1978. Oddio, non che Serginho sia meglio del Dinamite, anzi. Fa il palo, là davanti. Anzi, lo spaventapasseri. Ma non spaventa nessuno, ed è per questo che si trova da solo in mezzo all'area quando, verso la metà del secondo tempo, esausto per una furente percussione vista e accompagnata da Zico con delizioso tocco di esterno destro, Falcao mira la sua capoccia, la centra in pieno, il pallone rimbalza in direzione di Fillol ed è la rete del due a zero. I detentori della coppa capiscono che ormai la cuccagna è finita, ma Zico la deve pagare. Ci pensa Passarella, specialista dell'intimidazione, e mentre il Galinho viene accompagnato fuori molti si domandano come faccia un uomo di quella statura ad avere una caviglia così grossa. Poi anche el Pibe, sul quale i barcellonisti cominciano a fare discorsi densi di punti interrogativi, si indigna nei confronti di Batista, che era entrato giustappunto per sostituire Zico e ha pensato valesse la pena di colpire al volo il testone di Juan Barbas, infischiandosene delle conseguenze. "Ma sì, state vincendo tre a zero, almeno tu ricordati di me", e come souvenir gli sistema una magnifica suola bella piena di tacchetti nel basso ventre. A questo punto Mario Rubio Vasquez perde la pazienza: "tu quoque, Diego?". Essendo l'arbitro, ha il diritto di amministrare la giustizia almeno in questa partita, e dunque la amministra: cartellino rosso (foto). Finisce così, tra i fischi del Sarrià, la disperata avventura dell'albiceleste al mundial di Spagna. Maestoso e tremendo, il Brasile si è liberato degli argentini come fossero insetti nemmeno troppo fastidiosi. Si sbarazzerà facimente anche dell'Italia, pensano i più, e poi via, rotta su Madrid.

2000
La dignità di un allenatore

L'arma preferita dagli italiani quella sera si inceppò. Il destro di Del Piero era caricato a salve, e millanta occasioni da gol andarono sprecate, nonostante il deserto nella trequarti difensiva dei francesi. Così, un pallone in zona Cesarini trova la strada per passare in mezzo alle gambe di Toldo, e un altro viene scaraventato alle spalle del medesimo e con cattiveria platense da Trezeguet (foto), confermando il trend inaugurato nel '98: gli azzurri sprecano, i galletti capitalizzano. Inutile girarci intorno: il reiterato scialo moltiplica automaticamente le possibilità che faccia capolino la nemesi, e quella sera andò esattamente così. Quando hai di fronte avversari insidiosi, possono sempre e improvvisamente trovare la combinazione giusta e spalancare la tua cassaforte. Il gollettino di un carneade come Marco Del Vecchio costituiva appunto - dopo tanto sperpero - quanto rimasto all'Italia sul conto della finale nei minuti conclusivi; il bullismo multietnico transalpino lo razziò quasi per inerzia, e i rappresentanti della nazione avviarono la caccia al colpevole di tanta demenza. Ex post, la partita è ricordata soprattutto per il violento attacco frontale portato dal capo dell'opposizione politica e parlamentare al commissario tecnico della nazionale: a Dino Zoff, bandiera vivente del football italiano. Declassato improvvisamente a dilettante: "Si poteva vincere e bisognava vincere. I problemi riguardano la conduzione della squadra: non si può lasciare la fonte del gioco Zidane sempre libero. Era una cosa che non si poteva non vedere, anche un dilettante l'avrebbe vista", disse Silvio Berlusconi, a reti unificate. Trascorrono quarantotto ore, e il furlano reagisce, con stile e compostezza. Rassegna le dimissioni, gesto raro. "Dal signor Berlusconi non prendo lezioni di dignità. Non è giusto denigrare il lavoro degli altri pubblicamente, non è giusto che non si rispetti un uomo che fa il suo lavoro con dedizione e umiltà". Con dedizione e umiltà, l'Italia stava per sollevare la coppa in faccia ai campioni del mondo. Ma non era destino.
Cineteca


2010
L'istante più crudele nella vita di Asamoah Gyan

Osservate lo sguardo di quest'uomo. Ha le mani in testa. Tra un istante, potete scommetterci, inizierà a piangere. Si chiama Asamoah Gyan, soprannominato Baby Jet. Anzi, a ben pensarci, la sua è un'espressione incredula. Cos'è successo? Semplice: stava per entrare nella storia, ma all'ultimo istante la storia ha tirato giù la saracinesca. Sa che un'intera nazione dell'Africa nera, il Ghana, che è poi la sua patria, in questo momento sta pensando cose orrende di lui. Perché? Solo e semplicemente perché ha sbagliato un calcio di rigore. Cosa c'è di più apparentemente normale, banale, ricorrente nel calcio, di un calcio di rigore sbagliato? Tutti i giocatori si disperano, quando accade. Il portiere graziato fa salti di gioia, e la vita di quelli che hanno tratto vantaggio dall'errore torna a fluire, ordinaria e piena di vere o false promesse. Stavolta, però, siamo davvero al cospetto di un caso limite. Estremo. Mai verificatosi nella storia, e che difficilmente ricapiterà, vai a sapere. Tornate a guardare il volto di Asamoah. In questo momento, l'arbitro ha appena fischiato la fine della partita. Anzi: la fine del secondo tempo supplementare. Sul dischetto, Baby Jet andò sapendo che a lui spettava il gesto finale e decisivo. Che avrebbe portato il Ghana in semifinale e, dunque, nella storia. Ora, riavvolgiamo il nastro del tempo, ma solo per qualche secondo. Ecco, da qui. Il giocatore prende la rincorsa. Colpisce la sfera. La sfera si muove, decolla, decolla ancora, non cessa di muoversi all'insù. Asamoah vorrebbe tanto che restasse impigliata nella rete tesa alle spalle di Muslera, il portiere dell'Uruguay. Ma il pallone si alza ancora, e se continua così - pensano in tutta Johannesburg - viaggerà fino in fondo alla notte, e atterrerà su qualche pianeta situato al di là del sistema solare. E invece no. Quel pallone si schianta in volo, contro la traversa. Non esplode in mille frammenti sintetici, ma nella mente di Asamoah tutto un futuro già immaginato dissolve all'istante. Non vorrebbe crederlo, ecco ancora la sua espressione. Il futuro deve ricominciare, molto è accaduto ma è come non fosse accaduto nulla. C'è un'altra partita da giocare, fatta solo di altri e tanti calci rigore, e la vincerà l'Uruguay. 


  • Vedi anche le partite del 2 luglio in Cineteca

1 luglio

1950
La capocciata

Le squadre ci sono, e sono schierate al centro del campo. L'arbitro c'è. Il pubblico? Una marea. 
Centoquarantaduemiladuecentoquarantanove spettatori, dicono le tabulae sacrae. La partita è delicatissima, e il Brasile è costretto a vincerla. Obbligato. Se non vince, si ferma qui. Estromesso. Secondo nel girone, dietro la Jugoslavia. Un fiasco. Un maracanaço. Per colpa degli svizzeri, ma chissà poi chi gliel'ha fatto fare di andare a São Paulo per quella maledettissima partita, si stava così bene qui a Rio. Inoltre, gli slavi sono un osso duro, durissimo. Vent'anni fa a Montevideo i carioca le hanno buscate, e addio semifinali. Rivincita, dunque. Squadre schierate. Ehi, un momento! C'è qualcosa che non va. Perché la Jugoslavia ha in campo solo dieci giocatori? Arbitro! L'arbitro è un gallese, Benjamin Mervyn Griffiths. Se ne infischia e fischia il calcio d'inizio. Quello che manca è Rajko Mitić (foto), la stella della Stella Rossa, mica uno qualunque. Poi si è saputo. Mentre stava salendo in campo, ha preso una capocciata contro qualche spigolo di qualche muro nei sotterranei del Maracanã. Ambulanza e punti di cucitura. "Arrivo subito", dice ai suoi. Rimesso in sesto, si avvia. Sente un boato, petardi e mortaretti. I suoi amici, senza di lui, hanno beccato subito un gol. Evviva, pensa. Appena iniziata, la partita è già finita.
Cineteca


1990
Notte napoletana

"Avremmo potuto essere un po' più cinici. Sul 2-1, con soli sette minuti da giocare, potevamo uccidere definitivamente la partita. E invece abbiamo continuato come fosse un'esibizione, per piacere agli spettatori". Ha ragione Roger Milla (foto): gettarono al vento la partita per inesperienza, per piacersi e compiacere, piacere e autocompiacersi, spinti dal genuino entusiasmo di una notte napoletana, quasi storditi dalla propria dimostrazione di forza. Risaliti dallo svantaggio in pochi minuti, lasciarono poi scorrere verso Lineker due soli palloni, inermi prede abbandonate all'appuntamento col predatore. Lineker accettò di buon grado una falciata sul primo, e sul secondo simulò l'irregolarità dell'impatto portato da Thomas N'Kono. Due penalties - quello decisivo nell'extra-time -, e il vascello inglese superava le colonne d'Ercole dei quarti di finale, un confine varcato solo ai tempi del mondiale giocato negli stadi della regina. Appesantita nelle gambe ma fortificata dall'entusiasmo, la ciurma si spostava verso nord. Verso Torino, dove ancora molto fresco era il ricordo dell'Heysel. Intanto i prodi leoni in maglia verde erano tornati in Africa, accolti come eroi e con generose elargizioni di quattrini. Avevano perso, ma rappresentarono l'unico vero ingrediente di gioiosa novità nel mundial italiano, festival di sprechi e corruzione, ingrigito dalla bruttezza di tante partite e reso per sempre triste dai fischi di Roma all'inno nazionale argentino prima del calcio d'inizio della finale. Furono soprattutto gli africani a rallegrare qualche serata, svolgendo la parte che da sempre era assegnata al Brasile. Si disse che il futuro del calcio era nei piedi di nuovi grandi campioni africani. 
Cineteca


2006
Sostiene Parreira

Gli sbruffoni non si sono allenati e questo è quanto si meritano. Gli sbruffoni erano sicuri di sostituire il proprio al mito dell'XI che sbarcò sulla luna nel 1970. Non si sono allenati. Ronaldinho, giù di corda. Kakà, idem. Adriano, svanito. Ronaldo, si sa. Trascina se stesso e le proprie tonnellate di muscoli e gloria in pochi metri quadrati di campo, ma resta comunque l'unico cui basterebbe un istante, un'idea per imporre il castigo. Cafù. E' stata la sua ultima partita, quante ne ha giocate nella Seleçao? Cinquemila? Diecimila? Dovevano stravincere, sembrano una squadra di vecchi cialtroni. Contro la Francia, poi. Zidane. Un ragazzino. Tirato a lucido, ha pescato Henri come fosse al di là di un oceano, solo come un falso naufrago. Un'esecuzione rapida, studiata (foto). D'accordo, ma i brasiliani in area sono tre, e i francesi cinque. Su un calcio piazzato. Lucio, Juan, Gilberto Silva. Gli altri non si sono nemmeno degnati. Roberto Carlos si stava sistemando un calzino, insomma aveva cose più importanti da fare. Così hanno riportato il pallone a centrocampo. Se si sono offesi, potevano lasciarlo lì. Per vincere una coppa del mondo non basta essere sicuri di vincerla. Bisogna farsi il mazzo. Allenarsi. "Dobbiamo seppellire il cadavere con dignità", sostiene Parreira. 

2012
Doveva essere una finale

Mi telefona un amico, capisco che è su di giri ancora prima di rispondere, lo capisco dall'eccitato e inusuale traballamento dell'apparecchio.
"Beh?", è il suo esordio.
So benissimo che stasera c'è la finale, dico. "Appunto. E dunque?"
Ha voglia di provocarmi. Non so se la guardo, dico, l'ho già vista. Abbiamo pareggiato, uno a uno. Naturalmente abbocca.
"Ma era la prima del girone! Un'amichevole, anzi nemmeno. Un allenamento. Li abbiamo lasciati pareggiare. Li abbiamo illusi".
Mah. Secondo me, a ben vedere, potrebbe anche essere il contrario.
"Senti un po'. Il loro ciclo è finito. E' durato fin troppo. Hai visto come abbiamo raso al suolo la Germania? Come abbiamo fatto ballare l'Inghilterra? Stasera i piccoletti non so nemmeno se vengono allo stadio. Secondo me sono già sull'aereo. E fanno bene. Se per caso decidono di presentarsi, scappano appena suonano le prime note dell'Inno di Mameli".
Se lo dici tu.
"E come no! Guarda, io vado in piazza, avranno tolto il maxi-schermo e probabilmente la festa è già iniziata. Se vuoi ci vediamo là".
Grazie, magari dopo cena. Non faccio in tempo ad accendere la TV, che la Spagna è in vantaggio. David Silva. Mi distraggo verso la fine del primo tempo: Jordi Alba. Mi addormento durante l'intervallo. Mi sveglio: Fernando Torres. Vado in bagno, torno: Juan Mata. Finalmente il triplice fischio.
Cineteca


  • Vedi anche le partite del 1° luglio in Cineteca

29 giugno

1950
Frankie voleva giocare a baseball

"I britannici, consci della loro superiorità tecnica, hanno dormito troppo fra gli allori ed hanno sottovalutato l'importanza dell'incontro. Hanno incassato senza batter ciglio la rete statunitense, senza scomporsi hanno tentato di rimontare lo svantaggio e, senza perdere mai la calma, hanno perso la partita" (Monsù Poss). Accadde nel primo torneo mondiale cui l'Inghilterra si degnò di partecipare. Spezzate le ossa al Cile nello storico match d'esordio, pagò il tremendo sforzo con l'amatoriale truppa americana. Non è vero che nelle redazioni dei giornali inglesi, quando fu telegrafato l’esito della partita, si pensò a un errore, e dunque non corrisponde a verità quanto spesso si legge, e cioè che annunciarono la vittoria dei Leoni col risultato di dieci a uno. Frank Borghi (foto) chiuse la saracinesca, e difese l'unico gol della partita, segnato per gli Stati Uniti dall'haitiano Joe Gaetjens. A proposito di Frankie. Gli sarebbe piaciuto diventare un grande giocatore di baseball, ma non ebbe fortuna. Decise allora di darsi allo sport meno popolare negli States: il soccer. Non aveva la minima idea di come si calciasse la sfera. Un pedatore meno che modesto, anche per i canoni del suo paese. Allora lo misero in porta - come sempre capita a quelli scarsi, si dice -, e giocò qualche partita nella selezione degli Stati Uniti. Di mestiere, però, faceva l'autista. In un'agenzia di pompe funebri. Nessuna battuta: sarebbe poco divertente e molto scontata.


1958
Questa maliarda e girovaga Coppa

Fu (e resterà) l'unica volta che il team della nazione ospitante perse in finale la coppa del mondo, perché quella del 1950 non era una vera e propria finale. A differenza di quel che accadde a Rio, qui non fu una tragedia. Anzi. Ragazzini dalla biondissima zazzera, e dunque sicuramente indigeni, dopo la partita, irruppero tumultuosamente nello spogliatoio dei brasiliani per fare incetta di autografi. L'autobus dei nuovi campioni percorse a tetto scoperto le vie di Stoccolma seguito da un corteo di auto strombazzanti. Naturalmente, si possono soltanto immaginare le sarabande che, nelle medesime ore, venivano organizzate da Copacabana a Sao Paulo. Anche Monsù Poss potè partecipare alla festa, invitato da Feola. "Rividi la Coppa che avevo tenuto per qualche giorno sul mio tavolo vent'anni prima. Le diedi un memore e nostalgico bacio di addio prima che essa varchi, dopodomani, l'Oceano nelle mani dei suoi nuovi padroni. Ne valeva la pena. Non siamo tanto sicuri di rivederla ancora, questa maliarda e girovaga Coppa".


1986
La corsa a perdifiato del Burru

La mossa del Kaiser sembra intelligente. Piazzare il terribile Lotario in marcatura fissa sul Pibe. Lotario è un bull-dog, è veloce, reattivo, capisce il gioco. Se il Pibe è messo in condizioni di nuocere poco, o di non nuocere affatto, i tedeschi vincono sicuramente la partita. Infatti, tolto Lui, gli altri cosa sono? Poeti e ronzini. Solo che, senza Lotario, il centrocampo della Germania è in balìa della propria assoluta pochezza. Quindi il Kaiser ha commesso un errore. Anche Bilardo. Carlos Bilardo - uno per il quale i giocatori si sostituiscono solo da morti - tiene in campo Brown, spalla fuori uso e braccio al collo (come Franz, sempre all'Azteca, nel '70), nell'ultima mezz'ora. Anche per questo i tedeschi rimontano due gol in pochi minuti. Ma non riprendono fiato, in attesa dei supplementari. I caratteri originali della natio producono altri immediati e dissennati arrembaggi. Beckenbauer urla, ma nessuno lo sta a sentire. Così, nell'unica artistica intuizione del pomeriggio, Diego spedisce Burruchaga nella prateria infinita che si stende davanti a Schumacher. El Burru si dispone in apnea, corre più veloce che può, e nessuno riesce a raggiungerlo fino a che, ormai in agonia, riesce a indirizzare il pallone sull'angolo più lontano. Tre a due, e coppa del mondo che torna in Argentina. Il vecchio Franz, quando ci ripensa, si mangia il fegato.


2000
A testa alta sulle barricate

D'accordo, non sei uno specialista. Ma tocca a te. Vai sul dischetto, posizioni la sfera, prendi la rincorsa. L'hai fatto apposta a spedire il pallone fuori dallo stadio? Certo che no. Infatti la colpa non è tua. La colpa è dell'allenatore. Il mite Frankie Rijkaard accusa se stesso prima che lo facciano gli altri, e rassegna le dimissioni. Gli olandesi sono dei poveri cristi, spossati e prostrati. Hanno giocato in undici contro dieci per più di un'ora e mezza. Hanno tirato in porta migliaia di volte, e poi hanno sbagliato una quantità impressionante di calci di rigore. Chiaro che, se sprechi tutto ciò che è possibile sprecare, la nemesi è in agguato e perdi la partita. Così, oggi i giornali italiani cantano le lodi del calcio all'italiana. Resistenza eroica, Nesta e Cannavaro a testa alta sulle barricate. Certo, abbiamo vinto immeritatamente. E' il nostro modo. Non siamo nati per dare spettacolo, bensì per impedire ai nostri avversari di divertirsi giocando a pallone - il che può essere molto spettacolare, secondo taluni. E' per questo che ci detestano, anche se - sotto sotto - ammirano la nostra praticità.  "Non c'è tanto da stare a discutere se il calcio degli italiani è bello o no: finché vince ha ragione", taglia corto Thierry Henry, il nostro prossimo avversario.


  • Vedi anche le partite del 29 giugno in Cineteca

28 giugno

1942
Il derby dello stretto di Øresund

Neutrale la Svezia, occupata la Danimarca, al vecchio Idrætsparken di Copenaghen di tanto in tanto si gioca a pallone. Lo stadio si riempie, e per novanta minuti il mondo torna com'era quasi sempre stato. Le squadre si schierano, salutano la folla, e non  passa inosservato quell'omaccione svedese, che sarebbe poi il centravanti del Degerfors. Dicono sia un pompiere, e che sia capace di andare in porta trascinando con sé tre o anche quattro avversari, tutti quelli che inutilmente cercano di impedirgli di fare sino in fondo la sua strada. Si chiama Gunnar Nordahl (foto). Sì, è un esordiente, ha poco più di vent'anni. Inizia la partita. La Svezia vince, tre a zero, e lui segna il secondo. Il pompiere (presto avrà un soprannome più adeguato:  il 'bisonte') sarà, negli anni a seguire, uno dei più forti giocatori del mondo. La sua storia, un romanzo pieno di gol.
Tabellino | Nordahl: Eupallog Pentavalide



1950
Jacques Fatton avverte il Brasile

Ah Jackie, ora che te ne sei andato tutti parlano di te. Dei tuoi trecento gol. Dei tuoi indimenticabili gol. Ti ricordi quello segnato a Zurigo, contro gli inglesi? Sì, proprio quello. Vinceste uno a zero, era nel maggio del ’47. Nel breve servizio su di te mandato in onda dalla televisione non l’hanno evocato. E’ vero, un mese prima avevi fatto gol anche a Firenze, contro il Grande Torino in maglia azzurra, ma contava poco, e avete perso cinque a due. E un mese dopo avete perso anche contro la Francia, a Losanna, ma una piccola soddisfazione te l’eri presa ugualmente. Vero, erano solo partite amichevoli, non contavano nulla. Eri giovanissimo, allora. Il bello è venuto dopo, ti ricordi? Certo, la tripletta all’Olanda nel ’50, a Basilea. Ma anche lì s’era trattato solo di un’esibizione. Non mi riferivo a quella partita. No, nemmeno allo spareggio del ’54 contro l’Italia, certo hai segnato al novantesimo ed è sempre buona cosa finire in bellezza, ma eravate già sul tre a uno. Italiani a casa, sì. Dico prima, ancora prima. Una rete importante, molto importante. Possibile non ti venga in mente? Se ne ricordano tutti, suvvia. Ma certo: a São Paulo. Senti questa musica: è un samba. L’hai suonata tu, quel giorno. Eri abbastanza irritato, perché il primo gol dei brasiliani non era buono, Alfredo si era trascinato la sfera oltre la linea di fondo. E quindi sei entrato con rabbia su quel cross radente di Bickel, li hai presi tutti sul tempo. Poi la zuccata di Baltazar, alla mezzora. Si correva a fatica su quel campo, così pieno di sabbia. Sembrava finita. Però negli ultimi minuti li avete messi alle corde. Eri abbastanza solo, quando ti è arrivato quel pallone, ricordi? Eri nella tua posizione preferita, sul lato sinistro dell’area. Hai caricato il mancino (foto). Hai cercato la precisione invece della forza, era quello il tuo stile. Barbosa si aspettava che cercassi l’incrocio, invece hai scoccato un tiro basso e velenoso, e lui non ha avuto il riflesso giusto. Due a due, a due minuti dalla fine. Ti ricordi, Jackie? Due gol al Brasile, quanti ci sono riusciti? Eh sì Jackie, ora che te ne sei andato, tutti si ricordano di te. Tutti si ricordano quei gol. Quanti bei gol, quanti indimenticabili gol, Jackie.
1994
Cinque pezzi inutili

Per curiosità, ogni tanto occorre riguardare tabellini e statistiche. E' un buon metodo. Specie se relativi a eventi di cui abbiamo ricordi diretti. Oggi, dunque, ridiamo un'occhiata ai numeri della peggiore Coppa del mondo mai disputata. Quella del 1994, ricordate? Partite a mezzogiorno, pedatori cotti sotto il sole verticale e in stadi dove invece che l'odore del prato si sentiva aroma di pop-corn. Bene. Come sapete, i migliori furono Romario e Roberto Baggio. Senza loro due, la finale non sarebbe stata Italia-Brasile ma, forse, Bulgaria-Svezia. Che orrore! A ben pensarci, però - e, appunto, rileggendo i tabellini - la Bulgaria non era un XI di pellegrini ortodossi. Avevano tra le loro fila un certo Hristo Stoichkov, che fu capocannoniere del torneo. Sei reti in sette partite. Mica male. Come dice? Giusto, anzi giustissimo. Capocannoniere fu anche Salenko. Oleg Anatovlevič Salenko (foto), centravanti della Russia e, a quei tempi, del Club Deportivo Logroñés. Sei timbri, come il bulgaro. La Russia fu eliminata già nella fase a gironi, ma Salenko stabilì un record: cinque gol in una partita. Russia-Camerun. Sei a uno. Cinque gol davvero superflui e che non riscattarono l'onore di tutte le Russie. Ma permisero a Salenko di scrivere il proprio nome nel Guinness dei primati.
Cineteca


2012
Il gioco è semplice e il suo esito scontato

Eravamo in vacanza con alcuni amici tedeschi. Passammo vicino a un campetto. "Ehi, facciamo una partitella?", disse uno di noi. "Certo, perché no? una specie di Italia-Germania", aggiunsi. Ci guardarono sospettosi, confabularono tra di loro, e poi declinarono l'invito. Senza alcuna spiegazione. "E' chiaro, hanno paura di perdere", mi disse sottovoce colui che aveva proposto il diversivo. Era stufo di girare per spiagge e musei, ma a dire il vero non è che con il pallone ci sapesse fare granché. E poi, la sera stessa, in programma c'era proprio Italia-Germania, a Varsavia, semifinale del campionato d'Europa. Campionato d'Europa di calcio, sì. Avete presente? Il calcio. Quel gioco semplice, al quale si gioca in ventidue (undici per parte), si insegue un pallone per novanta minuti, e alla fine vince sempre l'Italia. No, non sempre. Se di fronte c'è la Germania e qualcosa di importante in palio. Così, tutti insieme e riforniti di bibite ci siamo sistemati nella piazza di un piccolo paese, dov'era montato un maxi-schermo. "Prima o poi la ruota girerà", disse Ulrich. SuperMario aveva appena giustiziato Neuer con un bolide epocale, Italia due Germania zero. Girerà, sì. Ma quando?
P. S. La ruota è girata nel 2016 ...

  • Vedi anche le partite del 28 giugno in Cineteca

25 giugno

1950
Il colpevole

Quasi tutti i titolari rimasero in tribuna d'onore, una tribuna speciale che nessuno poteva vedere ma soltanto immaginare. Certo, avrebbero dovuto giocare loro; erano gli eredi designati. Che fossero davvero forti come Meazza e Colaussi, come Guaita e Schiavio, l'avrebbero stabilito solamente gli stadi del Brasile. Ma al Pacaembu scesero in campo undici ragazzi stanchi e poco allenati, che avevano navigato fino al Sudamerica per il timore d’essere risucchiati nel buio dell’oceano, terrorizzati all’idea che la macchina volante potesse anche per loro essere fatale. Forse arrivarono al prato già rassegnati, e furono messi sotto da undici “sbrigativi” (come li definì Monsù Poss) dilettanti svedesi; iniziava per gli azzurri una lunga epoca di incertezze e delusioni. Di esperimenti inutili. Ne è testimonianza la strana storia di Augusto Magli (foto), solido centromediano metodista e sistemista della Fiorentina, capitano mancino dei viola nell’immediato dopoguerra. In nazionale, giocò solo quel giorno; della sconfitta, fu considerato tra i principali responsabili. Ripudiato da Ferruccio Novo e dai suoi successori, vagò per gli stadi della Serie A fino al 1958; poi – dicono le scarse informazioni disponibili – emigrò. Aveva sposato una figlia di Edoardo Moroni, già ministro dell’agricoltura nella Repubblica Sociale Italiana, ‘esule’ in Sudamerica, funzionario di Perón, longa manus della grande industria italiana in Argentina e poi in Brasile. E fu proprio in Brasile che Magli andò a vivere nel ‘63, restandoci per oltre trent’anni. A São Paulo iniziò, finendola al novantesimo, la sua carriera azzurra; da São Paulo, il 3 novembre 1998, arrivò la notizia della sua morte.
Cineteca


1986
E' morto il re

La Francia ha eliminato dalla coppa del mondo un bel po' di coppe del mondo: le tre dell'Italia negli ottavi; le tre del Brasile nei quarti. Ora, in semifinale, può defenestrare le due dei tedeschi, e la cosa sarebbe in sé di enorme soddisfazione. Anche in ricordo della semifinale di quattro anni fa. Allora erano favoriti i teudisci, e vinsero. Oggi sono favoriti i francesi. Mitterrand è già sul predellino,  ha in tasca il biglietto per la finale dell'Azteca. "Se Platini fosse vivo (e invece è mezzo morto) favorirei la Francia su tutti", scrisse Gianni Brera.  Infatti. Un gol all'inizio, uno alla fine. Il primo è una paperona di Bats, il secondo vale solo per le statistiche. Erano favoriti i francesi ma - toh! - ha vinto la Germania. Quindi il re è davvero morto. Il Kaiser, invece, gode di ottima salute, e va a giocarsi l'ennesima finale della sua interminabile carriera.
Cineteca


1988
L'angolazione di Van Basten

Cari signori, questa gita serve a guardare il football da una prospettiva diversa.
E' perciò che siamo venuti direttamente qui, sul prato dell'Olympiatsadion. Ecco, dovrebbe essere esattamente qui. Come potete vedere, siamo fuori dell'area del portiere, ma oltre l'ideale proseguimento della sua linea, intendo quella orizzontale, parallela alla linea di porta.
E ora guardate la porta. Sì, venite qui, uno per volta, senza spingere. Ciascuno prenda appunti, faccia uno schizzo, un disegno. Se volete, usate pure il goniometro.
Io, cari signori, me lo domando da tanto tempo. E me lo domando semplicemente perché io, da qui, non la vedo. Ne immagino lo specchio, questo sì. Ma non la vedo. Come? Ah, bene. Ovviamente anche voi non vedete nulla, e non si tratta di scarsa fantasia.
Resta il fatto storico, scientificamente imponderabile. Al quale, dopo tanto studio, ho forse trovato una risposta. E la risposta è nell'organizzazione difensiva di Lobanovski. Come ricorderete, i suoi furono sorpresi dalla fulminea ripartenza degli olandesi. Van Tiggelen arò metà del campo, in progressione verticale, prima di allargare il pallone verso Mühren  Il ripiegamento sovietico fu immediato, ma concesse ugualmente larghi spazi.
Ricordate? Marco si decentrò, e i centrali si preoccuparono solo di Gullit. In queste circostanze, i meccanismi automatici messi a punto da Lobanovski prevedevano che anche la porta (il dodicesimo giocatore universale) partecipasse all'azione di difesa, con lievi, impercettibili movimenti. Ma, poiché i movimenti del reparto furono complessivamente errati, sbagliato fu anche quello della porta, che ruotò nella direzione sbagliata.
Offrendosi a Van Basten come limpido, inatteso bersaglio. 

  • Vedi anche le partite del 25 giugno in Cineteca

24 giugno

1950
Un inglese a Rio

"Quanta disorganizzazione! Le colombe, le fanfare e i colpi di canno­ne non risolvono i pro­blemi. E nessuno che mi venga incontro. Peggio per loro. Se io non arrivo, la partita ovviamente nemmeno comincia, e la coppa neppure". George Reader, compaesano di Shakespeare e arbitro designato di Brasil-México, overture del campionato del mondo, si stava perdendo nelle viscere del Maracanã.  Alla fine, tuttavia, riuscì a sbucare sul prato, e fece persino in tempo a indossare la divisa. Beh, si dirà, potevano giocare anche senza di lui, cosa sarebbe cambiato? Il Brasile può fare a meno di tutto, è incline all'improvvisazione e nel futebol la esprime con massima allegria. In fondo, anche i messicani si saranno divertiti, subendo quattro gol da questi ballerini di samba, dieci ballerini più il portiere e ciascuno che si muoveva al ritmo della propria musica. Serio serio, Reader - da onest'uomo delle West Midlands - fece il suo lavoro e non dispensò molti sorrisi. Anzi. Fu abbastanza infastidito da quell'invasione di fotografi e giornalisti dopo il primo gol, ma non si fece impressionare, e con fermissima calma rese chiaro a tutti quali fossero le regole da osservare in simili circostanze. "Non si intervistano i giocatori durante la partita! Fuori dai piedi, o la sospendo!" Mentre il match procedeva verso un naturale e scontato epilogo, il suo sguardo si posava di tanto in tanto sulla folla, tutt'intorno. Gli sembrava di essere nell'epicentro di un terremoto.
Cineteca


1990
Il freddurista

Derby della madonnina negli ottavi di Italia '90. Al Meazza vince l'Inter (gol di Klinsmann e Brehme); platonica la presenza nel tabellino di Ronald Koeman, che due anni prima ad Amburgo era stato l'unico a dare la propria in cambio della maglia di un avversario, salvo mimarne un uso singolare sotto la tribuna centrale del Volksparkstadion. Il solo milanista a lasciare una traccia profonda nella partita è il mite Franklin Edmundo Rijkaard: si prende un rosso per aver espettorato in testa a Rudolf ('Rudi') Völler, che gli dava le spalle (foto). Un 'gesto' del quale nessuno ha mai saputo il motivo; forse il primo episodio del genere colto dalle telecamere e immediatamente ritrasmesso dal satellite ai quattro angoli dell'universo. Il disgusto fu unanime. Anche il tedesco fu espulso, senza ragioni apparentemente comprensibili. Si parlò di epiteti razzisti; prima Völler, poi Rijkard negarono la circostanza. A distanza di tempo Frankie dirà: "a pensarci adesso è davvero buffo, no?". E' un noto freddurista. Ma anche un olandese originario delle Indie occidentali; per lui la vittoria dei tedeschi non era un evento insopportabile. Così, dopo la battaglia di Milano, i migliori poeti olandesi non vennero nuovamente sollecitati a versificare, com'era accaduto nel 1988. I cittadini di Amsterdam non corsero più in strada per gettare simbolicamente nel cielo le proprie biciclette. Ci fu solo qualche disordine lungo la frontiera. Dal canto loro i tedeschi, che erano sembrati irresistibili nelle prime partite, uscirono un po' storditi da quell'ordalia; arrivarono in fondo al torneo e lo vinsero, ma nessuno si divertì più guardandoli giocare.
Cineteca

  • Vedi anche le partite del 24 giugno in Cineteca

6 maggio

1950
Prove di maracanaço

L'ala destra del Peñarol esordisce con la maglia della Celeste. A poche settimane dall'inizio della Coppa del mondo, che si svolgerà in Brasile. Curiosa la storia di quest'ala destra. Con quella maglia è sceso in campo dodici volte (davvero poche): di queste, in cinque occasioni l'avversario è stato il Brasile. La prima al Pacaembu di São Paulo - un match valido per la Copa Rio Branco, appunto il 6 maggio 1950 -, e l'Uruguay vinse quattro a tre. Lui non fu decisivo, ma Pepe Schiaffino segnò due gol. Lui, Alcides Edgardo Ghiggia, si limitò a prendere le misure della cassaforte. Farà il suo grande colpo il 16 luglio, al Maracanã.



1979
La stella e l'addio

Il Golden arringa i fideles accorsi a San Siro. E' la penultima giornata del campionato. Si rischia di non giocare, troppa gente allo stadio, ci sono lavori in corso, ci sono pericoli. Tocca a lui cercare di riportare la calma. 
Alla fine, il pallone rotola. E' la volta buona. 
La stella tanto agognata e sempre sfuggita, spesso all'ultimo istante. Era come una maledizione.
La stella che campeggiava solo sulle maglie delle storiche rivali. 
Arrivò dunque il campionato e arrivò il giorno. Bastava un pareggio col Bologna, per staccare definitivamente l'imbattuto Perugia. 
Arrivò il pareggio e arrivò la stella. 
Il vecchio ragazzo poteva appendere le scarpe al chiodo, con il cuore finalmente in pace.
Tabellino (sub data) | Documentazione (foto, giornali, video)



2009
El Iniestazo

"Andrés Iniesta tiene una calle en su pueblo, en Fuentealbilla. A este paso, deberán cambiarle el nombre a su localidad natal. Desde anoche, Andrés ha logrado un sitio grande en el corazón de todos los barcelonistas del mundo" (Mundo Deportivo). Stamford Bridge: semifinale di ritorno di Champions League. Il Chelsea ha quasi portato a termine il suo maledetto lavoro: uno a zero, dopo il pari a reti bianche di Camp Nou. Un'azione confusa del Barça, confusa e disperata come un arrembaggio che ormai pare senza destino. La palla carambola tra i piedi di Messi, sul vertice destro dell'area di rigore. I varchi sono chiusi. L'unica possibilità è un appoggio in orizzontale. Iniesta è - come sempre gli capita - bene appostato, e di esterno destro, e di prima intenzione, scaraventa alle spalle di Cech. Apoteosi blaugrana, Chelsea nell'abisso della sconfitta senza sconfitta.
Cineteca

  • Vedi anche le partite del 6 maggio in Cineteca

30 aprile

1922
Franza e Spagna (e il Rompe Redes)

Le due nazioni confinanti si sfidano per la prima volta nel gioco del pallone. Sono i francesi ad ospitare i vicini, e scelgono Bordeaux, su di un campo dove di solito rotolano palle ovali. Chiaramente, non c'è partita. Tra gli spagnoli brillano varie famose stelle; i galletti sono meno che modesti pedatori. Finisce quattro a zero,  con doppiette di Paulino Alcántara (foto) e di Manuel López Llamosas "Travieso", il cattivissimo delantero basco che nella Selecciòn giocò solo questa partita. Il secondo gol di Alcántara restò leggendario: uno "shoot enormisimo que nadie fuera capaz de detener ... Ha sido una de los mejores goals que he visto en mi vida. El balón impelido por el gran 'shootador' ha atravesado la red" (J. Ugalde, Mundo Deportivo). Uno shoot che gli valse il soprannome: Rompe Redes.

1950
Ciclone magiaro

L'Aranycsapat non parteciperà ai mondiali brasiliani. Non disputa nemmeno le gare di qualificazione, la federazione non dispone di quattrini sufficienti per l'iscrizione; epopea e tragedia brasiliana, epopea e tragedia magiara quattro anni dopo. Purtroppo, a Rio gli ungheresi non andarono. Resta il dubbio, il pensiero di ciò che avrebbero potuto fare. Così, in quell'anno, giocarono solo partite amichevoli. La prima al Megyeri út di Budapest, contro la Cecoslovacchia. Sebes, poco per volta, dà forma al progetto. Hidegkuti, Puskás, Kocsis inamovibili. E' una festa di cinque gol, due di Biró, due di Kocsis. Non c'era, in Europa, una squadra più forte di quella.

1967
Il Golden orchestra la rimonta

"Nella parte iniziale della partita mi sono fatto male alla caviglia sinistra. Ho avuto una grande paura: ma guarda, mi sono detto, ho già la caviglia destra che mi fa soffrire terribilmente ed adesso mi faccio male anche all'altra. E' finita. Invece ho ricominciato a correre e dopo qualche minuto non ho sentito più niente. Cosi ho potuto giocare meglio di quanto sperassi". Anonimo è il campionato del Milan, nel quale brilla solo Giovannino Rivera. La Juventus invece si propone come unica alternativa all'Inter, che però la tiene a distanza di sicurezza. I bianconeri, per la trentesima giornata, sono a San Siro, mentre l'Inter vola a Cagliari. Sui giornali si polemizza per i premi partita promessi e per quelli non promessi (neanche mille lire per i cagliaritani, del resto - sottolinea la stampa torinese - "questo non capita, o perlomeno capita ben raramente agli avversari dell'Inter", indotti perciò a impegno non massinale). La Signora si avventa, giusti i dettami di Heriberto, e passa con Menichelli. Rabbiosa la reazione milanista, orchestrata dal pur menomato Golden. Incontenibile, sforna tre assist - due veramente magistrali -, detta la rimonta, e in definitiva offre lo scudetto all'Inter su un piatto d'argento. Così almeno sembra. Il mese di maggio ha tuttavia in serbo parecchie sorprese.
Tabellino | Highlights | Documentazione



1990
Il mediano dimenticato

Si spegne, a Firenze, Mario Pizziolo. Gran mediano della Fiorentina, giocatore amato da Monsù Poss, che dall'inizio del 1933 lo schierava regolarmente tra i titolari. E tra i titolari parte nel mondiale del '34. Ma la sfortuna per lui è sempre stata in agguato: si rompe nella prima delle due partite contro la Spagna. Proprio a Firenze, nel suo stadio. Stringe i denti, rimanendo in campo per 120 minuti, coi legamenti di un ginocchio tranciati. Un giornalista dubitò dell'infortunio, e lui lo sfidò a duello - ma Federazione e Fiorentina impedirono che il giudizio di Dio avesse luogo. Naturalmente, non tornò in squadra per semifinale e finale; il regime gli negò la medaglia di campione del mondo. Un'ingiustizia riparata solo mezzo secolo dopo. Vivrà e morirà solo, in assoluta povertà.
Profilo | Necrologio (Repubblica, 1 maggio 1990)


  • Vedi anche le partite del 30 aprile in Cineteca