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11 febbraio

1934
L'addio dei ragionieri

Non è certamente il Wunderteam quello che Hugo Meisl presenta allo "Stadio Municipale Benito Mussolini" di Torino per l'esordio austriaco nella Coppa Internazionale 1933-35. Manca Sindelar, per dire. Gli azzurri subiscono una sconfitta pesante, l'attesa festosa stinge in delusione. I leggendari ragionieri piemontesi della Juventus, Rosetta e Caligaris, sono al passo d'addio. Colpa dell'età. Astuzie e gherminelle di questi antichi giganti dell'area non bastano più. Il mondiale casalingo è alle porte, e monsù Poss deve escogitare nuove soluzioni.
Cineteca


1970
Il 'pistolero' di Durango

Finita alle spalle di Jugoslavia e Belgio nel torneo di qualificazione a Mexico '70, e dunque costringendo l'Hispania intera a guardare con occhio distratto lo sbarco sulla luna di Pelé in TV, la Roja ospita amichevolmente i tedeschi a Siviglia. E' un XI piuttosto rinnovato, anzi schiera ben cinque esordienti, e dal Real Madrid preleva solo Amancio Varela. La Germania piena di assi sonnecchia e un pistolero basco figlio d'arte, Arieta II (nella foto), nato a Durango, prova inutilmente a svegliarla con duas jugadas matematiche.
1981
Trombe giapponesi

Addio vecchia Coppa Intercontinentale, affascinante competizione dei 1960s. Evidentemente gli squadroni europei si sono stancati di andare negli stadi del Sudamerica a rischiare l'incolumità di pedatori sempre più costosi. Quindi, dall'edizione 1980, finale unica in campo neutro. Le trombe giapponesi (vere o finte?) a scandire il gioco. Al National Stadium di Tokyo chiude i battenti il favoloso Nottingham di Brian Clough, sconfitto dal solito tenace e pugnace XI uruguagio: il Nacional di Montevideo. Match-winner: Waldemar Barreto Victorino (foto).


1990
Lo schianto

Il Milan è una macchina lanciata a tutta velocità. Insegue lo scudetto, ha seminato lungo la strada uno per uno tutti i critici anti-sacchiani. Alla diciottesima curva, imbocca il tunnel che porta sul prato del Meazza. E' lì che finalmente ha a tiro la banda di fuggitivi guidata dall'ex Albertino Bigon (foto). Lo schianto è tremendo. Il Napoli resiste per un tempo, i rossoneri schiumano rabbia, ma alla fine travolgono i rivali. Tre a zero, pubblico in delirio. Il peggio deve ancora arrivare.


21 gennaio

1901
El Divino

Nasce, a Barcellona, Ricardo Zamora. "Lo chiamavano el Divino. Per vent'anni fu il miglior portiere del mondo. Gli piaceva il cognac e fumava tre pacchetti di sigarette al giorno e qualche sigaro" (Eduardo Galeano, Splendori e miserie del gioco del calcio, p. 43). Giocò nel Barça, nell'Espanyol e nel Real, ma fu campione di Spagna solo con i Blancos. Poi allenò anche l'Atletico Madrid.
Pentavalida




1926
Quelli che fecero l'Italia

Un breve necrologio appare sul Corriere del 22 gennaio, in sesta pagina. In basso. "In una casa di salute di via Lamarmora è morto ieri sera Umberto Meazza, socio fondatore dell'Unione Sportiva Milanese e uno dei pionieri dello sport calcistico italiano". Avvocato, ex giocatore, ex ginnasta, ex alpinista, Meazza (nessuna parentela con Peppino) fu il primo CT della nazionale italiana. Selezionò i 22 giocatori fra i quali sceglierne 11 da opporre alla Francia il 15 maggio 1910. Nel 1911 contribuisce a fondare l'Associazione degli arbitri italici. Già: ha fatto anche l'arbitro. Figura di grande rilievo nella protostoria del football nostrano. Se ne andava a soli 44 anni.


1968
Le dieu du football congolais

La Coppa delle nazioni d'Africa, con questa edizione disputata in Etiopia, stabilizza la propria frequenza. Contro i pronostici, il trofeo è sollevato dalla Repubblica del Congo, che in finale regola il Ghana, favorito e detentore del titolo. Basta un solo gol, e lo segna Pierre Kalala Mukendi (nella foto, a distanza di anni dall'evento), signore del calcio africano nei 1960s: "dans beaucoup de matches que j’ai joués, je crois que j’étais l’homme à abattre, mais je sortais toujours vainqueur". Consapevole immodestia.
Tabellino | Highlights | Kalala (profilo)


1970
Un quarto d'ora di celebrità

Per la quarta stagione consecutiva la vita del Napoli in Coppa delle Fiere si estingue negli ottavi di finale. Il vantaggio di una rete conseguito all'andata non è sufficiente a impedire la rimonta dell'Ajax. I lancieri hanno tuttavia faticato per archiviare la pratica. Le bizze di Cruijff (s'è già stufato di guadagnare due soldi ad Amsterdam) e l'ordinata difesa partenopea trascinano il match ai supplementari. Rinus Michels dispone però di un'arma letale e decide di metterla in campo: si chiama Ruud Suurendonk (nella foto). Potrà raccontare d'esser stato uno dei pochi (forse l'unico) capaci di segnare tre gol a Dino Zoff in un quarto d'ora. 



14 gennaio

1966
Münchner Derby

Campionato di transizione per il Bayern, appena arrivato al fussball
che conta dalle scampagnate della Regionalliga Süd. Obiettivo principale:  togliersi qualche soddisfazione. Per esempio, vincere il derby con quegli snob del 1860. All'esordio agostano era andata male: zero a uno (al Grünwalder, ospitava il TSV). La rivincita è ridondante: tre a zero. Secondo obiettivo: inserire in prima squadra e consentire una tranquilla crescita ai promettentissimi giovani bavaresi che si stanno facendo le ossa: Sepp Maier, Franz Beckenbauer (nella foto, lui e Wilfried Kohlars), Gerd Müller.  Quando saranno grandi, vinceranno tutto, dappertutto. Al 1860 ricordano però ancora bene quella stagione, se non proprio quel derby: perché alla fine si presero il titolo, primo e ultimo della loro storia.


1970
What a load of rubbish!

L'Olanda non era mai stata a Wembley, e pochi erano anche i precedenti tra Oranje e albionici. Ramsey prepara la spedizione messicana, c'è un titolo da difendere. E' giusto capire se ci sono alternative ai titolari. Per esempio, perché non vedere come se la cava quell'attaccante del Nottingham, Ian Storey-Moore? Beh, ci vuol poco a capire che questa maglia è troppo per lui. E non solo per lui, perché "ciò che ha maggiormente indispettito il pubblico è stata soprattutto la mancanza di idee degli attaccanti, che una volta ricevuta la palla sembravano non sapere assolutamente cosa farne" (La Stampa, servizio speciale). Nella linea avanzata, però, c'era anche Bobby Charlton. Svogliato; il declino dei grandi pedatori, del resto, inizia a manifestarsi così. Sicché "neither England's status as world champions nor gratitude for Sir Alf Ramsey could stop the choruses of what a load of rubbish and bouts of slow hand-clapping castigating an experimental team's failure to pierce the opposition's defence during a goalless draw" (The Guardian).
TabellinoHighlights (Britishpathé)


2000
Il club del mondiale per club

La vecchia, gloriosa e rognosa Coppa intercontinentale sta per andare in pensione. Ci vogliono kermesse più lunghe e attrattive per i network televisivi. La prima edizione (sperimentale) del 'mondiale per club' si disputa in Brasile: tutte le partite al Maracanã e al Morumbi. United e Real (soprattutto lo United) sgambano, snobbando la competizione. In finale ci arrivano il Vasco di Edmundo e il Corinthians di Nelson de Jesus Silva (alias Dida: i due insieme nella foto) : ai rigori, la coppa è paulista.

28 dicembre

1963
Epifania di George Best

Nella foto si vedono due giocatori dello United e alcuni (sconsolati) del Burnley. Il più vicino alla porta (il numero 10) è David Herd, ma il gol porta la firma dell'altro, quello che sta per uscire dall'inquadratura, anche lui con le braccia levate, e soprattutto con un'espressione di felice stupore sul volto. Ha diciassette anni e mezzo, ha appena scritto il proprio nome nei tabellini della First Division. Il pallone, invece, pare l'abbia messo all'incrocio, ma non ci sono filmati a confermarlo. Fidiamoci, perché è lui stesso a raccontarlo: "io fui più che soddisfatto della mia prestazione e del mio primo goal da professionista, un tiro di destro dal limite dell'area che andò a insaccarsi all'incrocio dei pali". E da lì, direttamente sul Belfast Telegraph del giorno successivo, a piena pagina: Georgie, come tutti sanno, è irlandese, logico che da quelle parti esaltino le gesta di uno dei loro. Matt Busby, dal canto suo, ha capito benissimo che la sua seconda generazione di Babes sarà più forte della prima. 
Vai allo Speciale George Best di Eupallog


1970
Neve al Comunale

Torino è sotto un cumulo di neve, e la partita in programma il 27 (Torino-Milan) è rinviata al 28, si disputa di lunedì e non di domenica. La Rai prova a trasmetterla in diretta, ma non vuole scucire un centesimo e tutto va come al solito. Dunque si gioca, il campo è sgombro, gli spalti meno, il Milan è sgonfio, novanta minuti di assedio granata, la giornata d'inconsistenza agonistica vissuta da Rivera debilita il centrocampo, Rocco allestisce barriere umane sempre più folte. Finisce pari, un gol a testa, i rossoneri rimangono in cima ma si vede che il loro fiato è corto. "Incredibilmente dominato", tuttavia, l'XI del Paròn non vince solo per una papera del Ragno Nero. Agroppi ciabatta da venticinque metri, e Cudicini "si china e lì resta, artritico e stupito (foto), a vedere il pallone che gli sfugge tra le mani, poi tra i ginocchi, e si addormenta in rete" (Arpino). Delusi per il mancato successo, i followers del Toro salutano gli ospiti all'uscita dal campo con un sonoro e ripetuto "Ladri! Ladri!". Intanto, a Rio de Janeiro, Pelé conferma che ai mondiali tedeschi non parteciperà. Insomma: per il football non fu certo una grande giornata.
Tabellino


1971
Il narcotizzatore

Visto quel che è accaduto in Grecia all'andata, si può dire che l'Ajax abbia fatto bene a rinunciare. E' anche vero che i greci non hanno mai visto il Centenario nemmeno col binocolo, e forse Puskas ha davvero voglia di andare a mettere il naso in uno dei pochi santuari che non ha avuto occasione di visitare; e se quelli del Nacional decidono di buttare via la coppa dopo il pari di Atene, lui certamente non rifiuterà il regalo. Sì, ha fatto bene l'Ajax a dire nisba, e si è visto ad Atene, e lo ricordano anche le cronache prima della gara di ritorno. Ad Atene, un greco uscì in barella con una gamba fratturata, un altro ha dovuto abbandonare il campo prima della fine, un uruguagio è stato espulso. Le cronache temono che il peggio debba ancora venire. Risse, incidenti, violenze. Ma poi tutto fila liscio. Ci pensa Luis Artime (foto), sensazionale bomber dei Parquenses, a narcotizzare animi e partita con una doppietta. Una fra le tante della sua meravigliosa, inquieta carriera.
 
 

20 dicembre

1964
Fuga apparente

Sulla prima pagina di "Lo Sport illustrato" i lettori possono rivedere - fermato nell'istante appena successivo al tocco - lo stile leggero e leggiadro con cui il Golden appoggia la sfera nella porta del Bologna. La partita è appena iniziata, i rossoneri (in maglia bianca) assesteranno un bel colpo alle ambizioni del Bologna campione, e dopo tredici giornate sono in fuga.
Pascutti, anche questa volta, si fa espellere. I commenti della critica sono unanimi: la vittoria del Milan "verrà probabilmente ricordata tra qualche tempo come l'incontro su cui ha fatto perno tutta la lotta per il titolo italiano di calcio. I rossoblu, detentori dello scudetto, hanno perso sul campo dei primi in classifica e questi hanno portato il loro vantaggio a quote difficilmente superabili dalle squadre antagoniste (Inter, forse, esclusa)". Già: Inter esclusa ...
Tabellino | Documentazione

Rosato dà la caccia all'amico Sormani
1970
Fuorigrotta

Al San Paolo arriva il Milan, che insegue il Ciuccio (pieno zeppo di ex milanisti e mica da poco: Hamrin, Sormani e Altafini, per dire) a un solo punto di distanza in classifica. "Partita-scudetto", si usava e si usa dire. L'entusiasmo partenopeo è alle stelle, san Silvestro vicino, lo stadio (tutt'altro che metaforicamente) una polveriera. Un botto dopo l'altro, dall'inizio alla fine. Decine di migliaia di botti. Accade sempre, non a caso la società cerca di dissuadere i propri supporters mettendo in palio quattro abbonamenti gratuiti ogni domenica che non viene multata per le loro rumorose intemperanze. Stavolta, tuttavia, un petardo cade in campo e ferisce Silvano Villa, giovane centravanti del Milan. Esce tutto bruciacchiato, e un po' sotto choc. Poco importa, dicono i dirigenti rossoneri, tanto abbiamo vinto. Già, uno a zero. Poi arriverà il raddoppio, a tavolino.

15 novembre


1942
La terza maglia

I quotidiani del lunedì, in prima pagina, riproducono trionfali bollettini di guerra: sommergibili affondati, unità mercantili danneggiate, piroscafi colati a picco dalle forze dell'Asse sulle coste algerine. In seconda pagina, però, ci sono i resoconti delle partite, nonostante tutto si gioca ancora a football, di domenica. Capita che il Livorno guidi la classifica (momentaneamente) davanti al Toro, mentre due grandi procedono con lentezza, in mezzo al gruppo. Non è che si nascondano: stanno lì, ma hanno perso forza e ambizione, risaliranno per pura e semplice inerzia. Juventus e Bologna si sono incrociate al Benito Mussolini. Poca gente, è ovvio, partita strana, bolognesi in catalessi o bianconeri in ripresa, vai a sapere. Se la partita merita di essere ricordata - in fin dei conti, poco o nulla conterà - è solo perché, intorno alla mezz'ora, un gol (il terzo) della Juve è messo a verbale da uno 'abbastanza' famoso, certo ormai in là con gli anni (ma nemmeno troppo). Indossando la terza maglia della sua carriera, Peppino Meazza lasciava un segno anche in quella disgraziata stagione, disgraziata per tutti.
Tabellino 


1970
Lo sfortunato gabbiano dell'Het Kasteel

Stadion Het Kasteel, Rotterdam. Il derby tra Sparta e Feyenoord è importante per la classifica e acceso; la folla deborda, i tifosi dello Sparta abbattono la recinzione spinata e minacciano un'invasione di campo. Quella domenica è passata alla storia, però, per un altro motivo: alla metà del secondo tempo il portiere del Feyenoord, Eddy Treijtel, effettuò un rilancio a palla molto alta colpendo ed uccidendo sul colpo un gabbiano in volo. La carcassa del volatile è raccolta da un giocatore dello Sparta (foto) e momentaneamente sistemata di lato alla porta degli ospiti. A fine partita Treijtel decise di tenersi il cadavere, che ora riposa nel museo del Feyenoord, anche se i tifosi dello Sparta ancora lo rivendicano perché aveva attraversato il loro spazio aereo.

31 ottobre


1970
Come un cinghiale abbattuto

Sembra il momento migliore della sua carriera. Luci e ombre del Mexico sono alle spalle, il campionato è ripreso, lui ha il tricolore cucito sul petto, il Cagliari domina e dà spettacolo. Domenica scorsa sbancava San Siro, e Rombo-di-tuono non era mai parso così spietato e devastante.
Ora la sosta, la chiamata in azzurro.
Si va al Prater, è sempre una trasferta insidiosa, specie se ci sono punti in palio. Catenaccio e contropiede, nella tipica interpretazione valcareggesca degli ultimi anni, e a un quarto d'ora dalla fine l'Italia conduce: due a uno. E' a quel punto che Riva riceve palla, quasi al limite dell'area, e mentre la controlla e si volta i bulloni spianati da un oscuro mediano viennese, Norbert Hof, schiantano la gamba del grande cannoniere.
Era già accaduto. Col senno di poi è facile dire che, dopo di allora, Riva non sarà più lo stesso. Fu tolto di mezzo nel suo momento migliore.
"Nato per battersi e per vincere, Gigi sa di dover pagare prezzi enormi sia in gara sia fuori dei campi di gioco. Davvero la sfortuna si abbatte su chi sa emergere sopra gli altri. Durante la partita non lo si è visto in modo straordinario, ma ha detto poderosamente la sua nelle azioni dei due gol ed ha creato complessi e paure incredibili nella retroguardia austriaca, che a volte gli si stringeva attorno tutta intera come una muta di cani intorno ad un cinghiale tra i cespugli" (Giovanni Arpino).
Abbattuto il cinghiale, cupo fu il silenzio che scese sul Praterstadion e sull'Italia, raccolta e sgomenta davanti alla tv.
Tabellino | Highlights | Altri
[Tratto da  Michele Ansani, Lenta può essere l'orbita della sfera]

17 ottobre

1970
Come il guizzo disperato di un clown

Dopo il mundial messicano torna in campo l'Italia, in amichevole contro la Svizzera, al Wankdorfstadion di Berna. Assistemmo a una delle peggiori prestazioni in azzurro di Gigi Riva. Elvetici in vantaggio dopo un quarto d'ora, vanamente e affannosamente inseguiti dai nostri.
"Perdere a Berna, con una squadra  imperniata su di lui, assente Rivera, avrebbe rappresentato un  gravissimo rischio per l'avvenire  azzurro di Mazzola. Il giocatore aveva avvertito questa responsabilità e ne aveva calcolato i pericoli. Alcune sue titubanze nel primo tempo, la vana ricerca di una valida posizione, le incertezze nelle  fasi conclusive, erano forse anche strettamente collegate al suo  interiore tormento e alle sue preoccupazioni. E, dalle tribune, le ricorrenti invocazioni a  Rivera non erano certamente le più adatte a rincuorarlo. Ma Mazzola ha un carattere ferreo. Non si deprime. E'  puntiglioso, un fascio di nervi. Lui sapeva di giocare oltre che per la Nazionale, anche per se  stesso. E non voleva perdere" (G. Palumbo). Suo il prodigioso gol che valse il pari a pochi minuti dalla fine: fu come "il guizzo disperato di un clown che vede andare a catafascio tutto il suo spettacolo" (G. Arpino).
Cineteca

30 settembre

1945
Attenti a quei due

Dopo il festoso ritorno del pallone del 19 e del 20 agosto, l'Ungheria è di nuovo in campo. Sono cresciuti parecchi talenti nel paese, durante la guerra. E ora vengono messi alla prova. Oggi, all'Üllői út, si presenta la Romania, un avversario certamente non irresistibile. Fra le altre cose, c'è da vedere come se la cava quell'attaccante di un club minore (lo Zuglói Herminamező di Budapest), e come se la intende con il mancino diciottenne del Kispesti, quello che ha già esordito in agosto. Hidegkuti e Puskás giocano insieme oggi per la prima volta, e la loro storia sarà molto lunga. Senza storia è invece questa partita: finisce sette a due, e loro ne segnano un paio a testa. Nella penombra del dopoguerra sta nascendo un XI meraviglioso, composto di pedatori formidabili. Presto metterà a ferro e fuoco l'Europa intera.
Tabellino

Eddie Firmani
1959
La prima volta del Barça a San Siro

I catalani vengono a Milano per difendere il roboante quattro a zero di Camp Nou (siamo ai quarti di Coppa delle fiere), Helenio Herrera e Luisito Suarez hanno l'occasione di dare un'occhiata a quello che nelle prossime stagioni sarà il loro palcoscenico. San Siro non è strapieno, ma certamente è curioso. La partita è sostanzialmente amichevole e divertente. Ma come giocava il Barça? "La caratteristica del Barcellona è stata la grande vivacità del ritmo, durato ininterrottamente per 90 minuti. Non combinazioni di grande rilievo, ma un'azione minuta, insistente, a passaggi corti e spostamenti minimi. Raramente veniva effettuato un allungo su un attaccante libero, tutti gli uomini restavano costantemente legati a una azione uniforme, di fitta trama. In tutti gli uomini una sicurezza assoluta nel controllo della palla. Non è mai accaduto di vedere il pallone, anche nei passaggi più forti, staccarsi più d'una spanna dal piede, e il tocco che ne seguiva trovava sempre un compagno piazzato pronto a riceverlo. Fallito l'attacco tutti retrocedevano per tornare quindi ad avanzare compatti, legati sempre a quel filo ideale che fa muovere sincronicamente i giocatori che si capiscono" (Ettore Berra, 'La Stampa', 1° ottobre 1959). Ma allora il tiqui-taca l'aveva già inventato Helenio!
Tabellino 


1970
La partita dell'amicizia

Il grande Brasile torna il campo. Dev'essere festeggiato il terzo titolo mondiale, la Coppa Rimet ormai è loro per sempre, e dunque: tutti al Maracanã. La solita folla immensa: centocinquantacinquemila spettatori paganti (si suppone). E' definita la partita del ringraziamento, e la nazionale del Messico è l'ospite prescelto. Già: i brasiliani ringraziano così i mangiatortillas, che li hanno sostenuti e incoraggiati nelle (non) difficili sfide di giugno, del resto per fortuna loro (dei messicani) le due rappresentative non si sono incrociate durante la manifestazione, né sarebbe stato possibile se non per la finale. Certo, in tal caso la musica sugli spalti sarebbe stata molto diversa. A ogni modo la Seleçao scende in campo nella stessa, medesima formazione che aveva sbaragliato gli Azzurri. Manca l'acuto di Pelé: pazienza. Del resto un paio di assist li ha cavati dal suo repertorio, insieme a svariati altri virtuosismi. Finisce solo due a uno. Giusto così. Gli ospiti non vanno mai umiliati, specie se li si invita per ringraziarli di qualcosa.
Cineteca

9 settembre


1970
Gli occhiali di van Daele

Come avrebbe fatto Joop van Daele (foto) a vedere e centrare la porta, con un bel rasoterra da fuori area, se il solito gentiluomo dell'Estudiantes non avesse pensato di strappargli per tempo gli occhiali da vista, invitando qualche compagno di squadra a calpestarli e mandarli in frantumi? Avrà tirato alla cieca, certo, vada come deve andare. Doveva andare in porta e schiodare la partita. Così, reduce dall'infernale pareggio strappato alla Bombonera, il Feyenoord liquida lo squadrone argentino e si laurea campione del mondo. Bella stagione, quella dello Stadionclub, anche se uscirà da detentore al primo turno della coppa dei campioni per mano di un formidabile XI rumeno, l'UTI Arad. Pazienza. Intanto ad Amsterdam chissà come rosicano. E in alto i calici per van Daele, oscuro difensore, subentrato per caso dopo un'ora di gioco, destinato a oblìo eupallico senza quella prodezza; anche se, più famosi di lui, diventarono i suoi occhiali, popolari per la partita e per l'orribile canzone a loro dedicata da Luc Lutz: Het brilletje van Van Daele.

1975
The Oleh Blochin show

Che gran giocatore era Oleh Blochin. Forza e velocità, tecnica e fantasia. Un campione. Qualcuno forse non ricorda quel che combinò al Bayern nella supercoppa europea del 1975. Al Bayern: lo squadrone traboccante di campioni del mondo, di fuoriclasse epocali. Tre gol in due partite, gli unici finiti nel tabellino a Monaco e a Kiev. Davvero speciale fu, però, quello segnato all'Olympiastadion nella gara d'andata. Siamo oltre l'ora di gioco, e l'ennesima offensiva dei tedeschi si spegne nella ben presidiata area ucraina. Blochin riceve il pallone nella propria trequarti, a sinistra, e in dodici secondi di scatti e souplesse, finte e controfinte, improvvisi cambi di direzione, spostamenti della palla dal sinistro al destro e viceversa, si trova praticamente a tu per tu con Sepp Maier, e con un rapido shoot - dritto e preciso - la mette nell'angolo opposto. Un capolavoro. Lui è il simbolo e l'anima del grande calcio proposto da Valerij Lobanovs'kyj, che in quella serata bavarese entrò nella storia del gioco, per non uscirne mai più.

5 settembre

1934
Il sabato è più attraente della domenica

D'accordo, sarà forse perché manca Angelo Schiavio, la stella dei petroniani, ma a Vienna sono ottimisti. Capita sempre, quando una loro squadra - nazionale o no - deve affrontare un'italiana. C'è in palio la Mitropa, si gioca la gara d'andata. Al Praterstadion. "Che l'Admira debba vincere lo dice naturalmente l'allenatore dei campioni viennesi, lo ripetono i giornali, fa eco il pubblico e, in sordina, lo ritengono possibilissimo gli stessi giocatori. Noi, a dire il vero, volendo azzardare un pronostico, in base a quanto ci fu dato vedere domenica scorsa durante la partita fra l'Admira e il S. C. Wien, siamo pronti a riconoscere che l'attuale spettacoloso grado di forma dei nostri avversari impegnerà senza alcun dubbio fortemente la squadra italiana. Ma, d'altro canto, non possiamo condividere la persuasione diffusa a Vienna che a casa il Bologna debba ritornare malconcio" (La Stampa, il corrispondente si firma con le sole iniziali). Giusto. In ogni caso, "lasciamoli esultare. Il sabato, dice un vecchio adagio, è, di solito, più attraente della domenica". Giusto. Gli italiani vendono carissima la pelle, perdono la partita per puro caso dopo averla condotta perché subiscono tre gol in cinque minuti, ma c'è la rivincita in programma tra pochi giorni,  da giocare a Bologna. "Tranquillizzava nondimeno la ferma speranza, che a Bologna i nostri ragazzi, resi anche edotti dall'esperienza dì Vienna, eviteranno le distrazioni funeste e saranno, speriamolo, presi meno in uggia dalla fortuna". E così sarà.
Cineteca



1970
Peerless Pennington

Che triste giornata, per i fans dei Baggies. Se n'è andato uno dei loro, uno di qui. A Kidderminster, quaranta minuti di macchina da Hawthorns. Jesse Pennington, il grande Jesse.
Sono storie di un secolo fa, o quasi. Era il terzino sinistro di quella grande squadra, il WBA, era cresciuto nel club, era nato proprio a West Bromwich. Solo una volta, qui, hanno alzato il piatto della First Division, accadde nella primavera del 1920. Lasciarono le altre dietro di una montagna di punti. Lui, Jesse, era il capitano.
Eccolo lì, sempre con quella maglia addosso, per vent'anni, e peccato per tutte le partite che a causa della guerra non furono giocate, avrebbe stabilito record impossibili da battere.
Fu lui a incastrare quel criminale di Pascoe Bioletti, sì quello che comprava e vendeva partite. Cinque sterline a testa per i ragazzi, a patto di non vincere contro l'Everton, avevano stabilito, era la fine di novembre del 1913.
Finì uno a uno, e dopo la partita Jesse andò da Bioletti. A riscuotere il grano? No, a presentargli qualche simpatico poliziotto. Già: questo era Jesse 'Peerless' Pennington. Impareggiabile.

[Tratto da Michele Ansani, Lenta può essere l'orbita della sfera]

26 agosto

Duello aereo tra Kindvall e Bilardo
1970
La trasformazione della Bombonera

Applausi a scena aperta. La Bombonera - in omaggio al proprio soprannome - si fa improvvisamente gentile. Il pubblico si alza e applaude gli avversari. Sì, gli olandesi. Si dirà: d'accordo, Combin per fortuna non gioca nel Feyenoord, e quindi gli animi erano rilassati. Sì, però erano rilassati anche i giocatori dell'Estudiantes. Molto rilassati, specie perché, dopo dodici minuti, avevano già infilato due palloni alle spalle di Eddy Treytel. Rilassati loro, narcotizzato il pubblico. Sicché la sassata ricevuta in testa da Boskamp un'ora prima del calcio d'inizio rimane un episodio increscioso ma (tutto sommato) trascurabile. Sappiamo cosa può succedere da quelle parti. Il rapido vantaggio ha addormentato i cinquantamila. Non solo. "Il due a zero ha danneggiato la mia squadra", dice Zubeldìa. Che razza di scusa. Fa ridere, vero? No, non fa ridere. O meglio, fa ridere solo quelli che non conoscono il calcio. E così, mentre tutti ronfavano (gli avversari, il pubblico, l'Argentina intera) ecco che i due satanassi dei campioni d'Europa (Van Hanegem e Kindvall) riequilibravano il punteggio. Restava da giocare la partita di ritorno a Rotterdam, ma trattavasi ormai di una pura formalità, la coppa intercontinentale era praticamente assegnata.
Cineteca



1998
I cent'anni e la coppa del Vasco

Mezzo secolo dopo, il Vasco si prende la Copa Libertadores. Stavolta è ufficiale, non ci potranno essere tabulae che omettano o dimentichino, escludano o fingano di ignorare. Certo, nel '48 O Expresso da Vitória aveva di fronte il River Plate, e quel trionfo era stato inatteso e impronosticabile. Ora, più modestamente, si tratta difendere i due gol del vantaggio conseguito nel primo match al Monumental, nella tana del Barcelona. A Guayaquil, naturalmente. Gli ecuadoriani non vendono troppo cara la pelle, e  così nemmeno alla loro seconda finale - la prima fu nel 1990 - riescono a scalare il cielo del Sudamérica. Il Vasco de Gama ha così anche la coppa con cui brindare, insieme alla torta su cui va trovato spazio per cento piccole candele. Cento candeline che questa notte, però, nessuno avrà voglia di spegnere.
Cineteca


2012
In certi giorni davvero tutto il mondo è paese

Pozarevac (Serbia). Il 41enne ct del Kuwait, Goran Tufegdzic (che nel 2010 aveva guidato gli arabi alla conquista della Coppa del Golfo), è stato gravemente ferito da un colpo d'arma da fuoco nel corso di una accesa lite con alcuni vicini di casa, nel paese di origine dell'allenatore. Causa del litigio un appezzamento di terreno conteso tra le due famiglie. Al culmine del diverbio, un 86enne avrebbe estratto l'arma e colpito al petto Tufegdzic (foto), che giace in pericolo di vita in ospedale di Belgrado. Da sempre, in campagna, la proprietà di terre contese è causa di liti, aggressioni e violenze, con morti e feriti. E anche per gli allenatori è difficile trovare la tattica giusta per evitare gli attacchi avversari.

Pomigliano d'Arco (Italia). La gara di Coppa Italia Lega Pro tra Pomigliano e Savoia è cominciata in ritardo a causa del lancio in campo di alcuni petardi da parte degli ultras oplontini (cui era già stata vietata la trasferta a Ragusa in seguito a scontri inscenati a Pozzuoli). Fin qui la triste ordinarietà, non fosse stato che un volontario della Protezione Civile, il 24enne pomiglianese Pasquale Beneduce, ha raccolto un petardo credendo che fosse un fumogeno. Il petardo gli è scoppiato in mano, causandogli la perdita di pollice e indice. Ovviamente lo "spettacolo è dovuto andare avanti": 2-3 il risultato finale, nell'entusiasmo dei responsabili.

Rio de Janeiro (Brasile). La polizia ha arrestato 21 ultras del Fluminense appartenenti alla banda 'Young Flu', dopo averli colti in flagrante mentre aggredivano due tifosi del Vasco da Gama, con l'accusa di lesioni fisiche, associazione a delinquere e corruzione di minorenni. La madre di uno degli arrestati ha dichiarato che considera la tifoseria cui appartiene il figlio una fazione criminale: ''Escono di casa per uccidere i rivali''. Il dolore di una madre.

21 giugno (la finale del 1970)

1970
Il Brasile e la luna

"Col senno di poi", scrisse Garry Jenkins, "sembra naturale che Pelé e i brasiliani del 1970 arrivassero nei nostri soggiorni l'anno successivo al primo atterraggio sulla Luna. Tostao e Gerson, Jairzinho e Carlos Alberto non avevano solo il numero in comune con Neil Armostrong e il suo equipaggio. Erano, dopo Apollo 11, il secondo grande evento della nuova era mediatica".
Il gol-icona dell'evento fu segnato da colui che, della Seleçao, era il capitano: "Carlos Alberto stava arrivando in corsa, con la traiettoria intimidatoria di un siluro. Vedendolo arrivare, Pelé si volta senza fretta e appoggia il pallone verso di lui con la rilassata precisione di un giocatore di bocce. Senza bisogno di deviare, controllare o regolare il suo passo, Carlos Alberto colpisce il pallone di destro, indirizzandolo basso verso il palo destro della porta custodita da Albertosi".
Quel gol fu peraltro l'ultimo di una partita già ampiamente decisa; la Coppa intitolata a Jules Rimet trovava la sua giusta e definitiva collocazione (Zagallo e Pelé conclusero il lavoro avviato insieme nel 1958); e non c'è dubbio che la fase della storia del football apertasi nel secondo dopoguerra conosceva all'Azteca un simbolico e spettacolare epilogo. Già. Perché, nonostante la magnificenza del gioco, quel Brasile non rappresentava il futuro "luminoso e luccicante" del calcio, e la leadership culturale fu immediatamente ripresa dall'Europa. In Germania, nel '74, la Seleçao porterà un gruppo di giocatori la cui qualità complessiva non poteva competere con l'efficienza fisica e tattica delle migliori rappresentative continentali: dal confronto con l'Olanda usciranno letteralmente a pezzi. O Rey, nel frattempo, era traslocato direttamente nella leggenda, spendendo il suo tramonto di atleta nel tentativo di evangelizzare l'America. Dal canto loro, gli italiani si accapigliarono a lungo per i soli sei minuti che Valcareggi concesse a Rivera nella finale (persino Brera fu costretto ad ammettere che si trattava dell'unico fra i nostri capace di imbeccare da lontano Boninsegna e Riva, controllati 'a zona' dai soli due uomini di un reparto difensivo che naturalmente non contemplava la presenza di un 'libero'); alla lunga, tuttavia, ebbero nel cuore i cosiddetti messicani, che persero la finale ma avevano vinto contro i tedeschi la 'partita del secolo'.


14 giugno

1938
Appuntamento al Vélodrome

Prima o poi doveva pur accadere. Accadrà dopodomani a Marsiglia: Brasile e Italia al primo rendez-vous della loro storia. Già, alla fine i sudamericani ce l'hanno fatta: sono venuti a capo della rognosissima Cecoslovacchia, ma sono state necessarie due partite. La gente di qui - che di football capisce pochissimo - stravede per loro. Sono dei prestigiatori del pallone. Hanno una nozione di gioco collettivo molto approssimativa, e per questo l'undici di Meissner li ha tenuti in scacco così a lungo: l'improvvisazione non prevale mai facilmente sulla tenace tessitura. Gli italiani ora dicono di temere la sfida. Pozzo piange finte lacrime, "era meglio incontrare i cechi!", sbraita. Solo Ugo Locatelli mostra quale sia il vero stato d'animo della truppa. "Lo dice anche il proverbio, il diavolo non è tanto brutto quanto lo si dipinge, vedrete che questi brasiliani saranno dei ... bei ragazzi". Preistoria della pretattica.
Brasile-Cecoslovacchia: cineteca


1970
La vendetta di Montezuma

"The start of a run of massive matches in which English hearts were broken by the Germans". Di chi fu la colpa? Ovviamente di Sir Alf, che gestì male i cambi  nel corso del secondo tempo. Ma soprattutto di Montezuma, la cui vendetta è sempre in agguato da quelle parti. Colpì difatti Gordon Banks, l'uomo che aveva fermato Pelè: "If anyone had to be ill, why did it have to be him?", sarà il rimpianto  di Ramsey, costretto quel giorno a schierare tra i pali 'The Cat', l'esordiente Peter Bonetti. Di fatto, gli inglesi si portarono abbastanza facilmente sul due a zero. Banks era rimasto in albergo, e seguiva il match in televisione; "after another visit to the bathroom, he returned to his bed and, feeling rough and sleepy, switched off his TV set to take a nap, assuming the match was won". Sir Bobby Charlton uscì quando i tedeschi avevano appena segnato l'uno a due (liscio di Bonetti su destro dal limite del Kaiser, elegante ma centrale e più che resistibile) e mancavano venti minuti alla fine. Sir Martin Peters uscì poco prima che i tedeschi impattassero sul due a due, quando alla fine mancavano dieci minuti. Extra-time, come quattro anni prima. Punteggio identico. Ci vuol poco a immaginare chi fece il terzo gol (foto), e quale maglia indossava, e quanto amaro fu il risveglio di Banks, costretto a disdire in anticipo il sessantatreesimo cap, prenotato per la semifinale. Secondo Brera, a metter fuori l'Inghilterra furono "il caldo e l'altura, non soltanto la presunzione e la broccaggine". Forse è un'esagerazione; avevano incontrato una squadra molto forte, come il recente passato dimostrava e il futuro imminente avrebbe confermato. Ma, per la prima volta, gli inglesi avevano un titolo da difendere. Alleati nel nome della giustizia calcistica, Eupalla e Montezuma decretarono la loro sconfitta.

1973
Le vittorie che generano illusioni

Col senno di poi: tutta questa prosopopea per una partita vinta? D'accordo, non era mai successo - del resto, non è che ci siano state mille occasioni. Nell'esaltare con canti trionfali l'impresa non facciamo che tradire un sempiterno complesso di inferiorità nei confronti degli inglesi. "Forse gli inglesi siamo noi" (appunto), e con un "classico risultato all'inglese" (due a zero) abbiamo fatto nostro il match. Amichevole, certo, ma - si suol dire - a questi livelli non esistono confronti 'amichevoli'. C'è in gioco la tradizione, si rischia il prestigio. Vero è che Sir Ramsey, ormai alla frutta, ha portato i suoi in trattoria sulle colline torinesi la sera prima della partita, e alcuni di loro hanno fatto le ore piccole (non si sa chi, e non si sa quali ore). Logico che poi, in campo, gli albionici apparissero un po' frastornati: ma c'era bisogno di infierire su questi poveri "birilloni senza un'idea lucida nel cranio e quindi nella manovra"(Arpino)? Suvvia, siamo così abituati a esercitare la critica delle nostre vergogne, ci sia consentito un po' di sarcasmo - come a quegli allievi che hanno dimostrato di saperla più lunga di un maestro intontito e démodé. Anche perché di motivi per essere allegri ce ne sono davvero pochi: la lira è in picchiata, l'inflazione galoppa, il paese è (come quasi sempre) sull'orlo del baratro. Perlomeno, i nostri patemi non sono aggravati da un'altra sconfitta. Anzi, evviva: dopo il Brasile abbiamo battuto anche l'Inghilterra, la nostra è pur sempre terra tra le terre più fertili e antiche del football. Visioni alternative? "L'euforia per due vittorie abbastanza fasulle induce molta gente a sperare più del lecito nei mondiali dell'anno prossimo. Chi esita a entusiasmarsi passa per menagramo. In questo non siamo proprio cambiati" (Brera). E non cambieremo mai, anche questo è sicuro.
Cineteca

1982
Ove si narra di come il Brasile ebbe la meglio sui pedatori di tutte le Dinamo

Mi ricordo benissimo il gol Sócrates. La danza fuori dell'area, i due difensori elusi con altrettante finte, il controllo di esterno e poi il destro di pieno collo, all'incrocio dei pali, e il volo di Dassaev, che arriva a toccare ma non a deviare il pallone. E l'esultanza del dottore: una corsa con le braccia e lo sguardo che progressivamente si alzano, e la sua figura statuaria sommersa dall'abbraccio dei compagni. Fino a quel momento, una sola bandiera sventolava sugli spalti del Sánchez Pizjuán ed era quella sovietica. Il Brasile arrancava, zavorrato da un centravanti-ronzino e da un portiere insicuro. I pedatori di tutte le Dinamo erano passati in vantaggio (Andrij Mychajlovyč Bal', tipico prodotto di trasformazione del laboratorio di Kiev), ma alla lunga pagavano lo sforzo e la terribile afa di quell'estate spagnola: quando cala il sole, e un po' di frescura arriva sul prato, hanno ormai perso il fiato e l'energia. E' allora che il samba della torcìda e le trame di Zico, Sócrates e Falcao si fondono in un discorso sul football, frenetico e convincente, che finisce solo quando la partita è quasi finita, con il gol del due a uno.

2004
Non ci dovevi cascare, Francesco

Se fosse brasiliano, sarebbe osannato come Pelé. Se fosse inglese, avrebbe oscurato il mito di Bobby Charlton. Se fosse tedesco, lo considererebbero una sorta di incrocio tra Netzer, Hoeness e Fritz Walter. Se fosse francese non so. Invece è italiano, e - anzi - per gli italiani è soprattutto romano. Romano e romanista. Se fosse dell'Inter, della Juventus o del  Milan sarebbe considerato meglio di Meazza, meglio di Boniperti, meglio di Rivera. Ma è della Roma. Bravo sì, ma c'è sempre un dubbio. Il dubbio dilegua (apparentemente) quando lui cambia maglia, e indossa quella della nazionale. Lui è la stella che tutti attendono al varco. Per lui è vietato sbagliare, ma molti sperano che lo faccia. Lui deve decidere le partite, ma se le decide qualcun altro sono tutti più contenti. E soprattutto, essendo 'il' campione, deve comportarsi da campione. Sopportare i calci, reggere alle provocazioni. In effetti, quante deve averne sentite. E se mamma desse un'occhiata alle sue caviglie e alle sue ginocchia, gli vieterebbe di giocare ancora a pallone. Però, Francesco, è vero: non si sputa in faccia a un avversario, qualunque cosa ti faccia o ti dica. Lo so, è esattamente quello che Poulsen voleva ottenere: toglierti il pallone e possibilmente la partita, solo per un caso l'arbitro non se ne accorse. Dovevi ignorarlo, tapparti le orecchie, pensare a quel che sai fare, perché quel che non ti riesce ora - un dribbling, un passaggio smarcante di prima, un tiro imparabile - potrà riuscirti tra dieci minuti, tra quindici, tra venti; mal che vada, ti riuscirà nella prossima partita. Se ci sarà.
Italia-Danimarca (Euro 2004): Full match


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11 giugno

1958
L'impatto fatale

Vola il pallone di cuoio sopra le teste dei giocatori, nell'area dei cechi. Il momento è importante, e anche la partita, perché chi perde fa le valigie e torna a casa. Il che sarebbe uno scorno per i tedeschi, ai quali piacerebbe moltissimo confermarsi campioni del mondo, in barba alle grandi potenze atlantiche e socialiste, che nei trattati di pace dimenticarono di inibire loro il gioco del pallone. Per oggi sarebbe sufficiente sconfiggere la Cecoslovacchia, che però non è disponibile al sacrificio, sfrutta l'arma tipica di coloro che vengono stretti d'assedio - il contropiede - e va a riprendere fiato negli spogliatoi in vantaggio di due gol. L'assedio prosegue, e siamo appunto al momento (intorno al quarto d'ora dalla ripresa del gioco) in cui il pallone è lassù, sopra le teste dei giocatori, vola spinto di testa in testa, e molti si chiedono cosa stia aspettando Břetislav Dolejší, estremo difensore slovacco: deve uscire, deve interrompere quelle pericolose giravolte. Ecco che il pallone viene verso di lui. Ma verso di lui piomba anche Hans Schäfer (foto), potente attaccante teutonico. Břetislav acchiappa la sfera, ma simultaneo è l'impatto con Schäfer: portiere e pallone finiscono in rete. Due a uno. Il destino della partita è segnato, e sarà il piedone di Uwe Seeler a fissare il pareggio e tenere viva nel suo paese la speranza di un altro miracolo.
Cineteca


1969
Una carriera (e una coppa) in tre gol

Don Revie guidava il Leeds United, da qualche anno; era un allenatore di successo, e fece vivere ai Peacocks stagioni di avanguardia. Anche in Europa. Aveva parecchia fiducia nei suoi: tant'è vero che, quando sul finire dell'inverno gli ungheresi dell'Ujpest li buttarono fuori dalla Coppa fieristica senza faticare più di tanto, lui si convinse che doveva per forza trattarsi di uno squadrone per chiunque inarrivabile (o quasi). E difatti i magiari cavalcarono sino alla finale, dove il tabellone fissò per loro l'appuntamento con un altro undici albionico: il Newcastle United. Don Revie sentenziò: "solo se potessero schierare tutti insieme George Best, Bobby Charlton e Billy Bremmer, i Magpies avrebbero qualche chance". Esagerato. Di fatto, fu sufficiente schierare Bobby Moncur (skipper del Newcastle: foto), scozzese come Bremner (skipper del Leeds), ma le cose del calcio vanno sempre esaminate nel dettaglio. E il dettaglio è che, in tutta la sua carriera (dodici stagioni nel Newcastle - a partire dal 1962 -, centinaia di partite), Bobby Moncur (difensore centrale di ruolo) fece solo tre gol. Tutti e tre ad Antal Szentmihályi, che era il portiere dell'Ujpest: segnò i primi due della gara d'andata (finita 3 a 0), segnò il primo dei suoi nella gara di ritorno (una splendida girata a volo di sinistro nel cuore dell'area intasata), che si stava mettendo assai male. Così il Newcastle alzò il suo primo trofeo continentale. Primo e ultimo, va da sé.

1970
Ove si narra di come Israele non fu una seconda Corea

Alla Bombonera di Toluca, l'Italia non riesce a superare un gruppo di dilettanti israeliani vestiti da calciatori. Gli azzurri, avendo paura di perdere (sarebbe stata un'altra Corea), schiumano rabbia per novanta minuti. Sbagliano l'inenarrabile. Pagano errori dell'arbitro e soprattutto di un "guardalinee abissino" (e perciò tutt'altro che ben disposto a regalarci alcunché, scrisse Giovanni Arpino tra una riga e l'altra). Sicché verso la fine "deve salvarci Albertosi [figurina] da quella che sarebbe una beffa grottesca. La casse à épargne ha funzionato ancora. Siamo primi del nostro gruppo con quattro punti e un miracoloso golletto. Sarà micragna ma, tutto sommato, viva! Da quanti mondiali non si aveva il bene di passare il turno?" (Brera). Ce la vedremo nei quarti col México: "notte per notte aumenta la sua pazzia tifosa, le avenidas sono ingombre e decine di migliaia di automobili strepitano come un maremoto. Usciremo vivi da questa febbre?" (Arpino).
Cineteca

1984
Ce soir au Parc des Princes

Il momento è arrivato anche per loro. Poco meno di mezzo secolo dopo  la coppa del mondo  - organizzata quando in Europa si sentiva puzza di bruciato, e dalla quale li eliminò una squadra di italiani obbligati a salutare la folla col saluto romano -, i francesi fanno la coda del pavone e ospitano la rassegna continentale col ruolo di favoriti. Les Italiens sono rimasti a casa (affari loro), e puranco les Anglaises (peccato: sarebbe stato bello costringerli a un bagno nella Senna). Ci sono gli alamanni, e bisognerà stare attenti. Ma in cartellone c'è una sola star: Michel Platini. Cari amici, si apre la favolosa sagra del calcio-champagne, calcio da leccarsi i baffi. Stasera, al Parc des Princes, gran galà, overture, sono invitate anche le signore. "Excuse-moi, monsieur: qui jouera ce soir contre la France?" Mesdames et mossieurs, ultimi biglietti, solo diecimila franchi per vedere il primo gol di roi Michel al Championnat d'Europe de football. Prima della partita, è previsto che Platini salga per alcuni istanti nel palco delle autorità, per una rapida prova di sollevamento de la coupe (foto). Non mancate: ce soir au Parc des Princes, rue du Commandant Guilbaud, XVIe arrondissement.


1986
Quando Lineker è in giornata

La testa di Bobby Robson è ancora attaccata al collo; cosa deve succedere perché ne venga definitivamente per quanto metaforicamente separata? Semplice: è sufficiente che oggi, all'Universitario di San Nicolás de los Garza, l'Inghilterra non batta la Polonia, e che il Portogallo non vinca col Marocco. Eh eh eh. Qualcuno è disposto a scommettere un penny sulla testa di Bobby Robson? Ovviamente no. I terrificanti Leoni in 180 minuti non sono riusciti a perforare nemmeno una volta le difese avversarie. Zero gol al Portogallo, zero al Marocco. Un disastro? Molto, molto peggio. Beh, si dirà: in fondo non è che siano abituati a dominare competizioni e partite. Anzi. Vediamo quel che succede. Intanto, nella Polonia non gioca più Tomaszewski, certo è una buona notizia. Gioca, invece, Gary Lineker (foto). Anzi, gioca solo lui. Ma quando gli capitano giornate così, è una grandinata di gol. Ne segna tre in mezz'ora, e poi si sdraia dietro la porta dei polacchi ad aspettare notizie da Guadalajara. A Guadalajara - già - i portoghesi - che maleducati! - invece di giocare aspettano notizie dalla partita di San Nicolás de los Garza, e così il Marocco li castiga: tre a uno, bye bye Lusitania. 


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6 giugno


1962
Ove si narra di come Garrincha beffò la contraerea spagnola

Siamo al redde rationem: tra Brasile e Spagna, chi perde bagnerà di calde lacrime fazzoletti d'addio. E' messa peggio la Spagna, ai sudamericani un pareggio potrebbe bastare. La stampa iberica è in subbuglio: Hernanez Coronado - su suggerimento di HablaHabla (assistant-coach) o per far dispetto ad HablaHabla - rivoluziona la squadra e lascia fuori Luisito Suarez e Santamaría. Schiera due esordienti, e sembra aver azzeccato la mossa, perché Adelardo (uno dei novizi) sblocca la partita. Sopratutto, Coronado confida in Sígfrid Gracia (foto), terzino destro del Barça: "nelle due occasioni in cui ha già marcato Garrincha, ha annullato la pericolosa ala destra dei carioca". Il Brasile è senza Pelé, ma - appunto - c'è Garrincha. La sequenza è da rivedere mille volte, un istante dilatato all'infinito. Mané riceve palla da Valdir Pereira ('Didi') sulla tre quarti, nella sua naturale posizione di partenza. Ha davanti a sé due spagnoli - Pachin e l'anzidetto Gracia. Finta di partire, si ferma; i due non lo affrontano. Lui lavora il pallone: suola, sinistro, destro, tacco. Esterno destro: si allarga, entra in area all'altezza del vertice sinistro, rallenta la corsa, le pulsazioni cardiache degli avversari aumentano. Ecco, improvviso ma atteso, lo scatto felino, bruciante. Raggiunge la linea di fondo, là dove nessuno è riuscito a seguirlo. Con naturale dolcezza alza la sfera, è una parabola con modesto effetto a rientrare, destinata a beffare la contraerea iberica e a concludere la traiettoria sulla testa nera di Amarildo, che la appoggia in rete. E' il minuto 87, due a uno. Fotografi in campo, grande fiesta. Adiòs, Spagna.

1965
I fantasmi del Népstadion

Lo United partecipa alla Coppa fieristica, perché a quella dei campioni d'Europa è il turno del Liverpool di Shankly. Poco importa: non è gente snob, quella di Manchester, ogni partita e ogni competizione va onorata come si deve. E così i diavoli rossi, che hanno già vinto la First Division, raggiungono le semifinali. Ma il sorteggio è maligno, e l'inconscio non lesina scherzi. Dall'urna esce l'Ungheria. Pardòn, il Ferencváros. Non sottilizziamo, tocca comunque andare a Budapest. Si dirà: nessun pedatore adesso allenato da Busby era in campo, quel pomeriggio di primavera del 1954, e non è trascorso nemmeno un mese da che Albione si è presa una tardiva e pur striminzita rivincita (uno a zero, a Wembley, mica granché). Resta che a Old Trafford, nel match di andata, i magiari hanno strappato una sconfitta di misura (due a tre), e ora i giochi sono decisamente aperti. Infatti: un difensore-goleador, Dezső Novák (foto), verso la fine del primo tempo pareggia i conti dal dischetto. Un gol, e se la regola fosse già quella di adesso in finale ci andrebbero le Verdi Aquile. Ci vuole una terza partita e - maledizione - si giocherà tra dieci giorni, ancora qui, ancora a Budapest, ancora al Népstadion.
Tabellino | Highlights


1970
Patto di non aggressione

All'inizio del secondo tempo Domingo non rientra sul campo. Certo, avrà una dozzina di polmoni e volontà infinita, ma non gli si può chiedere di morire per asfissia. Così, al suo posto c'è un mediano della Juventus, e pure esordiente: Giuseppe Furino. E' giovane, è immaginabile che sarà titolare di questo undici per un decennio o quasi, ma non piace troppo a Valcareggi e non convincerà nemmeno i successori di zio Uccio. A ogni modo, lui entra perché si presume possa esserci battaglia. Si presume. Ma non c'è. Ai nostri e alla Celeste un pari può tornar buono, perché farsi del male? Quindi, che Riva (foto) e Boninsegna se ne stiano là davanti a cacciar farfalle. Tutti gli altri davanti alla difesa. Gli uruguagi non si spremono, sono forse più abituati all'altura ma preferiscono non correre rischi. Zero a zero e tutti contenti: "per nulla soddisfatto è invece il pubblico, che fischia a lungo e con grande intensità i protagonisti di una partita tanto attesa e tanto deludente" (Paolo Bertoldi, La Stampa).

2002
Doppio naufragio

Qualcuno certamente avrà tenuto conto dei gol sbagliati dai francesi in centoventi minuti, prima col Senegal e poi con l'Uruguay. E di quanti se ne è divorati Recoba (foto) contro i Bleus. Così dice male alla Francia, e non che all'Uruguay prometta romantici ritorni di fiamma. La recente grandeur e l'infinita tradizione producono uno zero a zero pieno di emozioni, broccaggini e colpi proibiti. "E adesso si ritrovano come due naufraghi che si sono contesi a morsi e unghiate l'ultimo pezzo di legno, sulla sabbia grigia di un pareggio che prima nessuno voleva e dopo tutti accettano" (Gianni Mura). Sì, lo accettano, perché non hanno alternative, e c'è per fortuna (come spesso - non sempre - capita) un'altra partita da giocare. Ma presente e passato del football sono senza futuro, qui nell'umidità della Corea meridionale vanambiziosa e riccastra.
CinetecaMura (La Repubblica, 7 giugno 2002)


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