Italiani d'Uruguay
Non c'è dubbio che l'avvenimento abbia prodotto un'eco enorme, a giudicare dallo spazio che gli dedicò la carta stampata. Le tournoi de football dell'ottava Olimpiade moderna, giunto al suo epilogo, è da tutti considerato alla stregua di un campionato del mondo. A Colombes, per la finale, ci sono tecnici, dirigenti, pedatori di ogni scuola e paese. Sono lì per ammirare l'undici delle meraviglie, l'Uruguay venuto in Europa a incendiare di entusiasmo i patiti del pallone. Sono lì per vedere se la Svizzera addestrata dai britannici - in particolare da Jimmy Hogan - è in grado di trovare contromisure giuste alla favolosa vena dei sudamericani. C'è anche Monsù Poss, che dal 1908 ha presenziato a tutte le finali dei Giochi Olimpici, ed è già prima firma de La Stampa per gli affari pedatori, italiani ed esteri. Monsù è estasiato dagli "americani", sottolinea la fantasia del gioco che praticano ("tutti hanno comune la capacità di illudere l'avversario, dando a vedere una intenzione e facendo poi l'opposto di quanto hanno lasciato credere"), sostenuto da velocità e condizioni atletiche superiori ("tutti battono gli oppositori con deviazioni del pallone effettuate quando l'avversario è già compromesso dal suo slancio e dalla sua corsa"). Insomma, sono di un altro pianeta e - ciò che non guasta - "sono quasi tutti italiani". La Svizzera è poca cosa, al loro cospetto. Finisce tre a zero.
Cineteca
Pelota cubana
Non si sa neppure e con precisione quando sia morto (inizio anni '80 del secolo scorso, presumibilmente). Né quante gare abbia giocato per il suo paese. Allo stato, l'Asociación de Fútbol de Cuba non ha reso disponibile un sito ufficiale, dove reperire informazioni e statistiche. Né su di lui, né su altri jugadores del presente e del passato (beh, quelli che rappresentarono calcisticamente l'isola ai tempi del generale Fulgencio Batista y Zaldívar potrebbero essere facilmente oggetto di memoria negata). E così di Héctor Socorro Varela (foto) sappiamo solo, da cronache e tabellini, che era un centravanti, e che nelle due partite degli ottavi di finale contro la Romania (fu necessario il desampate) mise complessivamente tre palloni nel sacco dei danubiani. Portò i suoi ai quarti, dove furono massacrati dai baldi ragazzoni svedesi. Chissà come li accolsero, al ritorno nei Caraibi. Chissà se Batista li gratificò con quintali di Partagás, o se decretò la totale indifferenza nei loro confronti; d'altra parte, erano venuti in Europa quasi abusivamente, solo per via della rinuncia delle nazioni che avrebbero dovuto disputar loro l'ammissione. Quella del 1938 fu, tuttavia, la prima e ultima partecipazione dei cubani alla fiera mondiale di Eupalla: la loro meglio gioventù ha infatti sempre prediletto il basket o la lippa (in inglese 'baseball'), e Socorro ha abbaiato alla luna.
1968
Aspettando Gigi Riva
Aveva giocato a pallone tutto il giorno, e quando stava per iniziare la finale crollò addormentato di schianto. Era molto tardi, erano le dieci passate, ma strappò al genitore imbandierato la promessa di svegliarlo se l'Italia fosse riuscita a segnare. "Non preoccuparti, se vinciamo ti sveglieranno i clacson delle automobili, la gente che fa festa per le strade", disse.
Riaprì gli occhi che il sole era già alto, una bella domenica d'inizio estate. "Oh no, abbiamo perso!", pensò immediatamente; cercò subito, per stracciarla, la figurina di Dragan Džajić, il mostro che gli era apparso più volte in sogno durante la notte. Suo padre rientrava proprio in quell'istante, con la rosea sotto braccio. Ne vide l'espressione, e scoppiò in una risata. "E va bene, non abbiamo perso. Ma se abbiamo vinto, perché nessuno mi ha svegliato?", protestò il bambino. "La finale si ripete domani sera, e questa volta non solo inizia subito dopo Carosello, ma gioca anche Gigi Riva". D'improvviso, la vita gli parve piena di colori e di grandi prospettive; mise la Jugoslavia - una serie di soldatini piccoli e brutti - nel baule dei giochi scartati, e cominciò ad aspettare il momento in cui Riva avrebbe segnato il gol che in cortile poi cercherà di ripetere mille volte, anche se non era mancino come lui.
CinetecaRiaprì gli occhi che il sole era già alto, una bella domenica d'inizio estate. "Oh no, abbiamo perso!", pensò immediatamente; cercò subito, per stracciarla, la figurina di Dragan Džajić, il mostro che gli era apparso più volte in sogno durante la notte. Suo padre rientrava proprio in quell'istante, con la rosea sotto braccio. Ne vide l'espressione, e scoppiò in una risata. "E va bene, non abbiamo perso. Ma se abbiamo vinto, perché nessuno mi ha svegliato?", protestò il bambino. "La finale si ripete domani sera, e questa volta non solo inizia subito dopo Carosello, ma gioca anche Gigi Riva". D'improvviso, la vita gli parve piena di colori e di grandi prospettive; mise la Jugoslavia - una serie di soldatini piccoli e brutti - nel baule dei giochi scartati, e cominciò ad aspettare il momento in cui Riva avrebbe segnato il gol che in cortile poi cercherà di ripetere mille volte, anche se non era mancino come lui.
1996
Football Comes Home
Mi sono appisolato ieri sera, mentre leggevo Soccer Revolution, famoso instant-book di Brian Glanville del 1953. Un capolavoro. Così non ho visto la partita. Iniziava il Campionato delle nazioni d'Europa, a Wembley. "Football Comes Home", è lo slogan escogitato dai creativi al soldo della Football Association. Un po' come ammettere che se n'era andato. Dove? Ovunque, è stato via trent'anni, chissà che impressione gli fa tornare a casa. Magari spera di incontrare ancora Bobby Charlton e Bobby Moore, e noterà che pali e traverse non sono più così spigolosi nello stadio dell'Impero. Molte cose sono cambiate, insomma. Leggo che un tale Paul Gascoigne, testa cotonata e fiato corto, l'ha corteggiato a lungo, senza essere minimamente ricambiato. Ad Alan Shearer è andata meglio, perlomeno un sorriso glielo ha strappato. Leggo che non era gran cosa, questa Inghilterra, e non che la Svizzera fosse meglio. Perlomeno, quelli dei verdi altipiani non pretendono di avere inventato il gioco, e come tanti altri ritengono che il football sia ovunque c'è un pallone che rotola e gente che gli corre dietro. Si sono certamente meritati il penalty, con cui un tipo dal nome strano e piuttosto inquietante e soprattutto molto poco elvetico, tale Kubilay Türkyilmaz (foto), ha pareggiato i conti e mandato di traverso la serata ai sudditi della regina. Varium et mutabile semper Eupalla, direbbe il poeta.
La batosta del Wankdorf
Lo sostengono storici ed esegeti, ma non ci vuole grande sforzo, basta compulsare gli albi d'oro: il campionato più difficile è quello delle nazioni d'Europa, non la Coppa del mondo, dove per ragioni di politica e marketing partecipano compagini di irrilevante spessore. A riprova di ciò: solo due volte è capitato che la nazione detentrice della Coppa vincesse due anni dopo il campionato (il percorso contrario è pure riuscito in due circostanze, una alla Germania e una alla Spagna). Ci riuscì la Spagna nel 2012, e la Francia nel 2000 (che beffa!). Non l'Inghilterra (figuriamoci), non la Germania (strano!), e nemmeno l'Italia. Ora tocca ancora all'Italia, nelle vicine amiche nemiche (sportivamente parlando) terre d'Austria e di Svizzera, in un clima che s'addice al gioco del pallone per vie delle frescure d'ombra che le Alpi proiettano sui catini agonistici. Ci battezza l'Olanda, che schiera sempre pedatori temibili ma finisce spesso per perdersi in discussioni interne di vago argomento razziale. Al timone hanno Marco Van Basten, un apprendista del mestiere: uno che, però, ci conosce bene. E conosce benissimo el Dunadùn, CT azzurro della transizione. Sono amiconi, insieme hanno girato il mondo e vinto parecchio. Perché accanirsi in quel modo? Non siamo la Germania. Ciò nonostante, il pallone non lo vediamo nemmeno col binocolo, e al pensiero di quella serata a Wankdorf (reimbellettato e ridenominato: ora è lo Stade de Suisse) ancora la testa ci gira. Zero a tre, figuraccia quasi epocale: da centro del mondo, ci hanno rapidamente declassati a periferia dell'Europa.