1 luglio

1950
La capocciata

Le squadre ci sono, e sono schierate al centro del campo. L'arbitro c'è. Il pubblico? Una marea. 
Centoquarantaduemiladuecentoquarantanove spettatori, dicono le tabulae sacrae. La partita è delicatissima, e il Brasile è costretto a vincerla. Obbligato. Se non vince, si ferma qui. Estromesso. Secondo nel girone, dietro la Jugoslavia. Un fiasco. Un maracanaço. Per colpa degli svizzeri, ma chissà poi chi gliel'ha fatto fare di andare a São Paulo per quella maledettissima partita, si stava così bene qui a Rio. Inoltre, gli slavi sono un osso duro, durissimo. Vent'anni fa a Montevideo i carioca le hanno buscate, e addio semifinali. Rivincita, dunque. Squadre schierate. Ehi, un momento! C'è qualcosa che non va. Perché la Jugoslavia ha in campo solo dieci giocatori? Arbitro! L'arbitro è un gallese, Benjamin Mervyn Griffiths. Se ne infischia e fischia il calcio d'inizio. Quello che manca è Rajko Mitić (foto), la stella della Stella Rossa, mica uno qualunque. Poi si è saputo. Mentre stava salendo in campo, ha preso una capocciata contro qualche spigolo di qualche muro nei sotterranei del Maracanã. Ambulanza e punti di cucitura. "Arrivo subito", dice ai suoi. Rimesso in sesto, si avvia. Sente un boato, petardi e mortaretti. I suoi amici, senza di lui, hanno beccato subito un gol. Evviva, pensa. Appena iniziata, la partita è già finita.
Cineteca


1990
Notte napoletana

"Avremmo potuto essere un po' più cinici. Sul 2-1, con soli sette minuti da giocare, potevamo uccidere definitivamente la partita. E invece abbiamo continuato come fosse un'esibizione, per piacere agli spettatori". Ha ragione Roger Milla (foto): gettarono al vento la partita per inesperienza, per piacersi e compiacere, piacere e autocompiacersi, spinti dal genuino entusiasmo di una notte napoletana, quasi storditi dalla propria dimostrazione di forza. Risaliti dallo svantaggio in pochi minuti, lasciarono poi scorrere verso Lineker due soli palloni, inermi prede abbandonate all'appuntamento col predatore. Lineker accettò di buon grado una falciata sul primo, e sul secondo simulò l'irregolarità dell'impatto portato da Thomas N'Kono. Due penalties - quello decisivo nell'extra-time -, e il vascello inglese superava le colonne d'Ercole dei quarti di finale, un confine varcato solo ai tempi del mondiale giocato negli stadi della regina. Appesantita nelle gambe ma fortificata dall'entusiasmo, la ciurma si spostava verso nord. Verso Torino, dove ancora molto fresco era il ricordo dell'Heysel. Intanto i prodi leoni in maglia verde erano tornati in Africa, accolti come eroi e con generose elargizioni di quattrini. Avevano perso, ma rappresentarono l'unico vero ingrediente di gioiosa novità nel mundial italiano, festival di sprechi e corruzione, ingrigito dalla bruttezza di tante partite e reso per sempre triste dai fischi di Roma all'inno nazionale argentino prima del calcio d'inizio della finale. Furono soprattutto gli africani a rallegrare qualche serata, svolgendo la parte che da sempre era assegnata al Brasile. Si disse che il futuro del calcio era nei piedi di nuovi grandi campioni africani. 
Cineteca


2006
Sostiene Parreira

Gli sbruffoni non si sono allenati e questo è quanto si meritano. Gli sbruffoni erano sicuri di sostituire il proprio al mito dell'XI che sbarcò sulla luna nel 1970. Non si sono allenati. Ronaldinho, giù di corda. Kakà, idem. Adriano, svanito. Ronaldo, si sa. Trascina se stesso e le proprie tonnellate di muscoli e gloria in pochi metri quadrati di campo, ma resta comunque l'unico cui basterebbe un istante, un'idea per imporre il castigo. Cafù. E' stata la sua ultima partita, quante ne ha giocate nella Seleçao? Cinquemila? Diecimila? Dovevano stravincere, sembrano una squadra di vecchi cialtroni. Contro la Francia, poi. Zidane. Un ragazzino. Tirato a lucido, ha pescato Henri come fosse al di là di un oceano, solo come un falso naufrago. Un'esecuzione rapida, studiata (foto). D'accordo, ma i brasiliani in area sono tre, e i francesi cinque. Su un calcio piazzato. Lucio, Juan, Gilberto Silva. Gli altri non si sono nemmeno degnati. Roberto Carlos si stava sistemando un calzino, insomma aveva cose più importanti da fare. Così hanno riportato il pallone a centrocampo. Se si sono offesi, potevano lasciarlo lì. Per vincere una coppa del mondo non basta essere sicuri di vincerla. Bisogna farsi il mazzo. Allenarsi. "Dobbiamo seppellire il cadavere con dignità", sostiene Parreira. 

2012
Doveva essere una finale

Mi telefona un amico, capisco che è su di giri ancora prima di rispondere, lo capisco dall'eccitato e inusuale traballamento dell'apparecchio.
"Beh?", è il suo esordio.
So benissimo che stasera c'è la finale, dico. "Appunto. E dunque?"
Ha voglia di provocarmi. Non so se la guardo, dico, l'ho già vista. Abbiamo pareggiato, uno a uno. Naturalmente abbocca.
"Ma era la prima del girone! Un'amichevole, anzi nemmeno. Un allenamento. Li abbiamo lasciati pareggiare. Li abbiamo illusi".
Mah. Secondo me, a ben vedere, potrebbe anche essere il contrario.
"Senti un po'. Il loro ciclo è finito. E' durato fin troppo. Hai visto come abbiamo raso al suolo la Germania? Come abbiamo fatto ballare l'Inghilterra? Stasera i piccoletti non so nemmeno se vengono allo stadio. Secondo me sono già sull'aereo. E fanno bene. Se per caso decidono di presentarsi, scappano appena suonano le prime note dell'Inno di Mameli".
Se lo dici tu.
"E come no! Guarda, io vado in piazza, avranno tolto il maxi-schermo e probabilmente la festa è già iniziata. Se vuoi ci vediamo là".
Grazie, magari dopo cena. Non faccio in tempo ad accendere la TV, che la Spagna è in vantaggio. David Silva. Mi distraggo verso la fine del primo tempo: Jordi Alba. Mi addormento durante l'intervallo. Mi sveglio: Fernando Torres. Vado in bagno, torno: Juan Mata. Finalmente il triplice fischio.
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