Tbilisi, Hotel Gutsa
Tbilisi, Hotel Gutsa. Appena sveglio, Lev è assalito da brutti pensieri. Durante la notte ha dormito poco. No, non ha ripensato alla partita di ieri, con i greci è stata una passeggiata, un impegno sbrigato senza problemi. Contare i gol subiti in tredici anni non è l'ideale per addormentarsi, ne manca sempre qualcuno e bisogna cominciare daccapo. Le grandi parate sono state di più, ciascuna equivale a un tesoro da custodire, anche la memoria dei gesti ha bisogno di tenersi allenata. Il punto è che, ora, non ci saranno più palloni da catturare all'ultimo istante utile; non ci saranno più duelli nei cieli dell'area di rigore, gli applausi e i fischi negli stadi del mondo. Il suo orizzonte coinciderà con quello della Dinamo, ancora qualche stagione, ancora qualche campionato. Da oggi Lev Jašin girerà il mondo solo per raccogliere riconoscimenti e onorificenze, premi alla carriera, inutili medaglie. La vita è così. Col passare degli anni, ritroverà tutti i suoi avversari di un giorno, invecchiati ma sorridenti. Forse sorriderà anche lui.
URSS-Grecia: tabellino | Eupallog Pentavalide
Pasadena, si scende
Uno ci ha portati fino a Pasadena. Guidava un pick-up su cui trasportava i palloni che aveva infilato nelle reti della Nigeria, della Spagna e infine della Bulgaria.
L'altro, anche senza un ginocchio, aveva deciso di tornare per giocare la partita, perché in sua assenza nessuno sarebbe stato capace di leggere in anticipo le mosse bugiarde del Baixinho.
Così, nella finale col Brasile, non prendemmo nemmeno un gol. Subimmo per novanta minuti, poi per altri trenta. Poche le nostre opportunità, e nessuno ebbe la forza di sfruttarle. La posta in palio era altissima: il quarto titolo mondiale avrebbe significato la sanzione di una supremazia storica, definitiva.
Finì come si sa.
Da quella macchia bianca di gesso in mezzo all'area, Roberto Baggio e Franco Baresi scaraventarono i loro palloni oltre il confine, ormai incapaci per l'enorme stanchezza di colpirli con lucidità e precisione.
L'uno rimase lì, fermo, le braccia sui fianchi, in meditazione assente e protratta.
L'altro pianse, senza pudore, come un bambino che improvvisamente conosce il male prodotto dalla fine di un sogno.
[Da Michele Ansani, Lenta può essere l'orbita della sfera]
L'altro, anche senza un ginocchio, aveva deciso di tornare per giocare la partita, perché in sua assenza nessuno sarebbe stato capace di leggere in anticipo le mosse bugiarde del Baixinho.
Così, nella finale col Brasile, non prendemmo nemmeno un gol. Subimmo per novanta minuti, poi per altri trenta. Poche le nostre opportunità, e nessuno ebbe la forza di sfruttarle. La posta in palio era altissima: il quarto titolo mondiale avrebbe significato la sanzione di una supremazia storica, definitiva.
Finì come si sa.
Da quella macchia bianca di gesso in mezzo all'area, Roberto Baggio e Franco Baresi scaraventarono i loro palloni oltre il confine, ormai incapaci per l'enorme stanchezza di colpirli con lucidità e precisione.
L'uno rimase lì, fermo, le braccia sui fianchi, in meditazione assente e protratta.
L'altro pianse, senza pudore, come un bambino che improvvisamente conosce il male prodotto dalla fine di un sogno.
[Da Michele Ansani, Lenta può essere l'orbita della sfera]
- Vedi anche le partite del 17 luglio in Cineteca